Autorità e carità nel pensiero di Giuseppe Capograssi

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Ricordo del grande filosofo del diritto
a sessant’anni dalla morte

 

Giuseppe Capograssi – definito il Socrate cattolico da  Arturo Carlo Jemolo (1891-1991) – nasce a Sulmona il 21 marzo 1889 e muore a Roma il 23 aprile 1956 ovvero il giorno prima della seduta inaugurale della Corte costituzionale, che lo annovera tra i suoi componenti. Nel 1911 si laurea in Giurisprudenza, a Roma, con la tesi Lo Stato e la storia, sotto la guida di Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952). Dopo aver esercitato, per due decenni, l’avvocatura, nel 1933 inizia la sua carriera universitaria a Sassari, con l’insegnamento della “filosofia del diritto”, che sarà la sua disciplina preferita, incentrata sull’esperienza giuridica: in seguito, egli insegna, rispettivamente, a Macerata, Padova, Napoli e Roma (Frosoni, 1974).

I libri scritti da Capograssi sono una dozzina: libri che, oltre a mettere in luce la giuridicità della democrazia diretta (1922) e dell’esperienza comune (1932), immettono nuova linfa spirituale e morale nella scienza del diritto (1937) e nelle sue branche. Dal punto di vista teoretico e speculativo l’opera intitolata Riflessioni sull’autorità e la sua crisi (1921) e quella intitolata Introduzione alla vita etica (1953) sembrano essere i testi più originali del nostro autore: originalità che si ritrova pure nei tre volumi intitolati Pensieri a Giulia (1918-1924) ovvero nei pensieri fatti pervenire  alla futura moglie Giulia Ravaglia, che, per gli addetti ai lavori, sono da considerarsi  un autentico capolavoro della letteratura spirituale ed epistolare d’ispirazione cristiana, del XX secolo (Vasale, 1982).

Ebbene, per ricordare, a sessant’anni dalla morte, la figura e l’opera del grande filosofo del diritto, ci siamo ritagliati un approfondimento sul tema autorità e carità (Turi, 1987): tema, molto attuale, che si trova nel capitolo quarto del libro “Riflessioni sull’autorità e la sua crisi” (1921), nell’edizione a cura di Mario D’Addio, del 1977, alle pp.79-92.

“La passione – esordisce Capograssi – è ineliminabile dalla vita; gli uomini si muovono nella vita non col nudo scheletro del loro ragionamento, ma con tutta la loro anima concreta di passioni, di energie, di bisogni. La passione è in certo modo tutto l’uomo: essa pone nell’azione tutto l’uomo nella sua interezza, senso, corpo, utilità, individualità, persona, l’essenziale è che questo concreto e quasi ardente trasporto dell’individualità verso i vari interessi della vita non sopprima la ragione ma segua la ragione. Tutto il problema della passione è questo. La pena viene ad annullare la passione con la passione: ma questa passione è espiazione e quindi è passione buona”. ” (p.81). L’esperienza umana è, quindi, per il nostro autore, una passione ragionevole, mossa da bisogni e da desideri insopprimibili, che esigono di essere soddisfatti nella loro eticità teorica (=il bene ideale) e nella loro moralità pratica (=l’esistenza buona). Una vita viziata dall’accidia, dall’indifferenza e dalla deresponsabilizzazione è una vita degradata nella sua essenza e nella sua esplicitazione: è una vita egoista e non una “vita comune”, conforme alla giustizia e alla verità.

“Nella vita – continua “il Socrate cattolico” – l’autorità fa lo stesso: essa cerca di portare la passione che si trova nell’individuo dentro i fini della verità che essa prescrive” (p.81). A differenza di Hobbes (1589-1679) e di Spinoza (1632-1677), l’autorità giuridica non soffoca la libertà dell’uomo ma la valorizza nella sua dimensone liberante poiché è nella verità che nasce la libertà. In questo senso, filosofico e cristiano, l’autorità è fonte di verità condivisa e di libertà crescente: in particolare, l’autorità giuridica della legge positiva, innestata nel diritto naturale, è a servizio della “passione ragionevole”, che è passione orientata alla libertà morale, alla libertà dai condizionamenti e alla libertà  progettuale. “Poiché – prosegue Capograssi – ragione e passione sono in fondo la stessa cosa, la ragione nasce nella passione, dalla passione sorge la ragione come trasformazione della passione” (p.81): la radice della giustificazione ultima della “passione ragionevole” è, di conseguenza, la spiritualità umana ovvero è l’esistenza comune vissuta secondo la verità e con la guida della razionalità. Dal punto di vista giuridico, la legge veicola l’ordine della verità che è cercata dalla spiritualità ragionevole: in società, la corresponsabilità è, allora, la partecipazione dei cittadini alla costruzione del “bene comune” e della “casa comune”. In quest’orizzonte esistenziale, l’individuo forma e scopre la sua personalità (cf p.82) perché “[…] il vero capolavoro dell’autorità – sottolinea il nostro autore – è di mettere tutto l’individuo ‘col sangue suo e con le sue giunture’ al servizio della verità” (p.82),

“Solo l’autorità – dice Capograssi – crea le passioni grandi e le passioni buone: affermando la verità essa la introduce nella vita individuale e quindi converte le passioni dal loro folleggiare anarchico…Ma questa conversione suppone una più intima e totale conversione di tutto lo spirito individuale, che l’autorità tenta trasformando la sua giustizia in carità” (p.89). Lo Stato greco e romano era sganciato dall’etica ovvero dalla ricerca del bene personale: lo Stato sociale, moderno e contemporaneo, invece, garantisce e promuove la libertà della persona umana perché purifica la giustizia penale rendendola giustizia mite o giustizia caritatevole. La nuova giustizia introdotta dal cristianesimo nella storia conduce ad “aprire nuovi ordini” (cf p.86): Capograssi raggiunge, così, il vertice della sua “filosofia del diritto” che viene intesa come amore per la verità (cf p.89), il cui fine è la pace sociale (cf p.91). L’amore per la verità e la carità per la giuridicità sono, infine, le norme oggettive della giustizia: questa, essendo a servizio della libertà personale e sociale, costituisce ed istituisce la premessa caritatevole e l’assunto amorevole della felicità umana e collettiva.

La giustizia è, di conseguenza, il prezzo minimo della carità: la giustizia mite è, moralmente, l’unica giustizia umanistica e a misura d’uomo perché essere miti significa essere beati e misericordiosi (cf Mt 5, 5.7). La laicità del cristianesimo insegna che nella verità della carità cristiana c’è tutta la verità della giustizia e della libertà umana, personale e sociale (Gv 8,32). 

 

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