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Annalisa Sabatelli, dal 2005 a Torino

 

11-24-annalisa-sabatelliNOCI (Bari) - Trasferirsi per un giovane studente può all'apparenza sembrare una scelta facile, un primo tentativo di ottenere la propria indipendenza dalla famiglia e dalla routine; spesso può persino essere interpretato da occhi esterni come ricerca della tipica spensieratezza dell'età e di divertimenti momentanei. L'intervista di oggi dimostra quanto dietro a una simile scelta si possano nascondere motivazioni ben più profonde e addirittura trasmutarsi in un improvviso pentimento.

Annalisa Sabatelli (in foto), attualmente residente a Torino, è l'esempio di una ragazza che con determinazione e non senza difficoltà, ha oggi guadagnato il suo posto in questo modo, restando sempre legata al nostro piccolo paese.

Della tua prima esperienza lontana da Noci, precisamente a Milano, non conservi un bel ricordo. Per quali ragioni?

«Come ben sai, gli studenti non sono di certo noti per la loro disponibilità economica. In un certo senso mi sentivo come la protagonista della canzone di Cristicchi, “Studentessa universitaria”. Vivevo sola in una mansarda di 30 mq caldissima d’estate (anche 38° all’interno) e freddissima d’inverno. In quell’ambiente trascorrevo le mie giornate: studiavo, pensavo, mangiavo e dormivo, senza mai riuscire ad integrarmi nel contesto sociale milanese. Milano è una città grande e dispersiva ed io ovviamente non avevo l’auto per spostarmi di sera. In più il mio unico pensiero era rivolto ai miei affetti a Noci: famiglia, fidanzato e amici. Rivederli era l’unica cosa che per me avesse un senso. Nei periodi in cui non c’erano lezioni passavo giorni interi senza parlare con anima viva. Studiavo disperatamente tutto il giorno in modo da passare quanto prima gli esami e tornare a casa. Vivevo in una condizione di profondo isolamento dovuta in parte a un contesto sociale ostile per natura, quale è quello milanese, e in parte ad un mio atteggiamento risoluto di rifiuto di quella realtà. È stata un’esperienza che ho pagato a caro prezzo. A partire dal 2003 ho iniziato a soffrire di insonnia, disturbo che è passato solo nel 2010 grazie all’aiuto della psicoterapia».

Al momento lavori in una grande impresa, quale è la Fiat. E’ stata l’opportunità lavorativa a spingerti nel 2005 a trasferirti nuovamente, nonostante l’esito negativo del tuo primo trasferimento e a cambiare nuovamente abitudini di vita?

«Non è stato il lavoro a riportarmi al Nord ma l’amore che, come vedi, smuove le montagne, colma le distanze e fa dimenticare ciò che è stato. Ma, per fortuna, Torino è una città ben diversa da Milano. La mia vita infondo è cambiata relativamente poco, se escludi il fatto che ho dovuto imparare almeno le basi del “piemontese” e abituarmi a cenare alle 19:30! Ma per il resto, vivo come vorrei vivere e come, forse, vivrei anche a Noci. I piemontesi sono molto ordinati e precisi ma hanno dei tempi abbastanza rilassati, molto simili a quelli meridionali. Integrarsi è molto più facile. Certo, non nego che ancora sopravvivono dei focolai di pregiudizi nei confronti dei meridionali ma, per fortuna, si tratta di persone isolate e, se mi permetti, generalmente con un basso livello di istruzione. Perciò: “Non ti curar di loro ma guarda e passa”».

Ritieni che se fossi tornata a Noci nel momento in cui hai sentito l’esigenza di farlo, pentendoti della tua scelta di trasferirti a Milano, avresti potuto avere lo stesso successo lavorativo che hai ottenuto e che ti ha portato oggi a lavorare in Fiat?

«Non considero il lavoro in Fiat un successo. Il vero “successo” nella mia vita sarebbe stato risparmiarmi 7 anni di insonnia e altrettanti di inappetenza oltre all’ansia e all’insicurezza intrinseca che mi porto dietro.  Il vero successo sarebbe stato non aver perso gli ultimi 13 anni di vita dei miei familiari».

Nel presentarti, hai avuto modo di affermare che lavorando in Fiat capisci il “perché tanti nostri concittadini emigrati negli anni ’60, in Fiat sono durati poco”. Cosa è cambiato da allora a tal punto da indurti a continuare a lavorare in questo ambiente?

«Non credo sia cambiato molto dagli anni ’60 in questa azienda. C’è una mentalità manageriale non al passo con i tempi, basata sull’autorità piuttosto che sull’autorevolezza. E’ un ambiente molto duro. Questa è la ragione per cui tanti non hanno resistito. Grazie alla Fiat ho capito cosa mi piacerebbe fare nella vita e in cosa sono brava: disegnare e costruire. Lavoro in un’officina sperimentale di costruzioni prototipali. L’ambiente di officina è particolarmente ostile per le donne per retaggio culturale. Ci ho messo più di un anno per convincere i miei colleghi, 13 uomini ex-operai, che anche le donne hanno una buona creatività e manualità. Sono l’unica ragazza che ha resistito così tanto da loro. Spero di poter continuare la mia crescita professionale dentro o fuori la Fiat. Tuttavia a questa esperienza devo molto: lavorare in una grande azienda come la Fiat, con tutte le sue arretratezze e contraddizioni endogene, mi hanno permesso di approdare ad una mia visione manageriale di gestione di un'azienda e delle persone che dentro vi operano. Bisogna puntare ad avere persone che lavorano per "risolvere un problema" autonomamente e con coscienza piuttosto che truppe di diligenti soldatini. "Uomini e non caporali","vivere e non sopravvivere". E poi, grazie a questo lavoro, ho sviluppato il mio senso di praticità e acquisito abilità manuali non da poco: insomma, per cambiare una lampadina non devo chiamare l’elettricista!».

Pensi sia possibile dopo un’esperienza come la tua, ovvero così formativa sia a livello lavorativo che per quanto concerne la tua persona, valutare la possibilità di ristabilirti definitivamente a Noci?

«Mi piace citare la frase di un famoso film “ Chi va al Sud piange due volte: quando arriva e quando parte”.  È importante vedere ciò che c’è fuori Noci ma prima o poi arriva sempre il momento di tornarci. Per me è così. Sento di aver visto ciò che volevo vedere e l’esigenza di condurre una vita più tranquilla diventa ogni giorno più forte. E lo dico a prescindere dal lavoro. Non sono per nulla legata ai miei studi e non escludo opportunità lavorative anche completamente diverse».

Secondo la tua opinione, cosa spinge un gran numero di cittadini nocesi (principalmente giovani) ad abbandonare il paese per ricominciare in una nuova città?

«Il desiderio della scoperta, di vedere con i propri occhi cosa c’è  oltre le famose “colonne d’Ercole”  è qualcosa che fa parte dell’uomo ed ha origini ancestrali. Ed è giusto che sia così. Noci non offre molto sotto tutti gli aspetti della vita, dal lavoro, agli interessi culturali, al tempo libero. Perciò di sicuro opportunità lavorative  e desiderio di indipendenza e di scoperta sono le motivazioni principali specie per le persone molto giovani. La chiave di tutto è sforzarsi di non considerare le proprie scelte come irreversibili. Si va via ma si può anche tornare. Se non fossi andata mai via da Noci non sarei quello che sono, non mi sarei mai appropriata di tutte quelle conoscenze e consapevolezze che ora sono mie e mi accompagnano giorno per giorno. Nei momenti più bui penso che lasciare il mio paese è stato un errore e che tutto sarebbe stato più facile. Ma per tutto il resto del tempo sento di non invidiare chi, invece, a Noci ci è rimasto. Potrei ben dire, con un moto d'orgoglio, che tutto quello che oggi ho dal lavoro, l'auto nuova, alla casa, ai cuccioli che ho adottato e che vivono con me fino ad arrivare alla spesa che nel mio frigo non manca mai, è merito mio, del mio impegno, della mia volontà e della mia organizzazione. Torino è piena di ragazze come me e con una storia simile alla mia. Una mia amica direbbe a ragione " la mia casa sono io". Tornare a Noci con questo pesante bagaglio di cultura, di consapevolezze e di conoscenze sarà, in realtà,  la vera ricchezza"».

 

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