"Vincere": il ripudio di un grande amore e il bigottismo del potere

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NOCI - Il film di Marco Bellocchio, "Vincere", già nel titolo dà una indicazione di lettura. "Vincere, vinceremo" era uno degli slogan guerrafondai di Benito Mussolini. La vittoria e il potere, però, esigono delle vittime. Tale fu Ida Dasler che incontrò il futuro uomo politico nel 1907. Fu amore a prima vista, un vero "amour fou" (come dimostrano gli infuocati amplessi della parte iniziale del film). La donna, bella, colta, intelligente e ricca, arrivò al punto di vendere l'avviata sartoria, il suo appartamento e i gioielli per finanziare il nuovo quotidiano "Il popolo d'Italia" che Mussolini fondò dopo aver lasciato la direzione dell'"Avanti!" in seguito ai dissidi insorti su pacifismo o interventismo con i suoi ex compagni socialisti.


Ricevendo il regalo, l'uomo dice all'amante: "Allora ti dovrò sposare". Lei risponde:" Basta che tu mi dica una volta ‘ti amo'". Per tutta risposta Benito dichiara: "Ich liebe dich" (cioè, ‘ti amo' ma in tedesco). E' l'unico accenno del film ai sentimenti del protagonista. Fatto sta che a novembre del 1915 gli nasce un bambino da lui riconosciuto, Benito Albino, e il mese dopo sposa Rachele, una paesana e cameriera, ubbidiente e massaia.

L'amore precedente viene rifiutato con persecuzione di madre e figlio fino alla morte di entrambi, a distanza di cinque anni (1937 e 1942), in manicomio. Già su questa vicenda, poco nota, erano stati scritti due libri e girato un documentario trasmesso da Rai Tre. Il film non spiega il comportamento di Mussolini se non con motivazioni di opportunità politica: vediamo tutto dall'esterno e non entriamo mai nei pensieri dell'uomo. Osservare sullo schermo i volti e le personalità di Giovanna Mezzogiorno e di Michela Cescon (rispettivamente Ida e Rachele) rende ancora più incredulo lo spettatore rispetto alle scelte di questo marito (Ida dichiarò sempre che fu contratto matrimonio anche se il certificato non è mai stato trovato).

Il film, quindi, nella tripartizione passione-ripudio-persecuzione e nella negazione della donna e della maternità, si trasforma in una vicenda simile a quella raccontata in "Changeling": si afferma il trionfo del perbenismo e dell'ipocrisia, nonché si dimostra la violenza del potere (in questo caso l'omertà e la complicità a ogni livello col regime fascista che portarono alla sparizione di tutti i registri compreso quello parrocchiale). E' stato detto dai critici a Cannes, dove "Vincere" ha rappresentato il cinema italiano, che il film non è "riuscito ad amalgamare la grande e la piccola storia, il pubblico e il privato, la finzione e il documentario (i numerosi inserti tratti dai cinegiornali dell'epoca), il melodramma e l'apologo" (G. Barlozzetti).

I fatti storici, infatti, non servono a decifrare il comportamento privato che il regista spiega con la ferocia e l'opportunismo dell'uomo. Filippo Timi gli è piaciuto per questo come interprete: "Filippo", ha detto il regista, "doveva interpretare un uomo affascinante che si serve spietatamente delle donne per diventare il Duce". L'effetto della persistenza del mistero si traduce in una sorta di passività nello spettatore che assiste, rassegnato, a un copione predeterminato con esito scontato (persecuzione e morte). Convintosi, man mano che il film si dipana sotto i suoi occhi, che la sua curiosità rimarrà insoddisfatta, il pubblico si predispone ad apprezzare, separatamente, le diverse componenti dell'opera. Prima di tutto il piglio sicuro con cui i fatti vengono mostrati: l'ardore "futurista" che ben caratterizzò l'epoca.

L'intreccio tra melodramma lirico e documentazione storica dà, poi, bene l'idea di una epopea di massa che, prima di travolgere tutti, accese fanatismi e generalizzò violenze. Numerose sono le scene che restano impresse tra cui quella che vede Ida arrampicarsi sull'enorme grata del manicomio mentre la neve cade fitta; oppure i giovani innamorati su una panchina, di notte, che vedono passare davanti a loro un gruppo di ciechi legati l'uno all'altro come in Brueghel e in Beckett.

Memorabile infine l'interpretazione della Mezzogiorno nel suo trasporto amoroso, prima, e nella ostinazione, poi, di rivendicare il suo ruolo di prima e vera donna del Duce. E qui sta il paradosso di base del film: il regime, imborghesito e istituzionalizzato, opprime proprio coloro che lo avevano aiutato a nascere impavido, spavaldo e impetuoso come l'interpretazione di Timi nei panni del giovane Mussolini, padre e figlio (quest'ultimo però costretto a scimmiottare i discorsi e le pose del genitore negato).

 

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