" Mine vaganti", le sregolatezze di una famiglia leccese di pastai

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NOCI (Bari) - Un film girato in Puglia circa vent'anni fa, "La casa delle donne", ruotava intorno alla preparazione (domestica) della passata di pomodoro. Il regista italo-turco Ferzan Ozpetek, girando "Mine vaganti", al Galleria, ha avuto un'idea simile incentrando la sua storia su una famiglia, leccese, di pastai. Sappiamo la predilezione di questo autore per le tavolate cinematografiche intorno alle quali riunisce i suoi personaggi.

 

La fabbrica alimentare (la pasta Cantone) e la tavola imbandita si configurano come i motori della vicenda. La proprietà va divisa tra i due fratelli della famiglia anche perché una quota è stata venduta a un socio. Tommaso è tornato da Roma per questa incombenza ma ha deciso di confessare il suo segreto: non solo vuole fare il romanziere e si è laureato in Lettere (e non in Economia, come credono i parenti) ma è pure omosessuale. Antonio, l'altro fratello, ascolta in silenzio. A tavola, mentre il minore sta per dischiudere il suo segreto, confessa la stessa predilezione sessuale. Insomma nessuno dei due maschi continuerà il cognome della famiglia: le due mine vaganti hanno sovvertito valori ancestrali incarnati dal padre che si becca pure un infarto.

L'ultimo film di Ozpetek rispecchia il suo stile nel suo stesso titolo. La narrazione, nel seguire i diversi componenti del nucleo familiare, si fa proteiforme. Elena Sofia Ricci è la zia amante dell'alcol e degli amplessi notturni semiclandestini. La nonna, Ilaria Occhini, sospira ancora per il suo amore impossibile per il cognato. Lo stesso capofamiglia ha un'amante per meglio affrontare la propria consorte, decisionista e determinata nella gestione della casa. Il genero non riesce a farsi amare dai suoceri. La figlia decide di entrare nella fabbrica. La socia è una ragazza efficiente ma con un passato instabile. Questa congerie di comportamenti e di pulsioni innesca diversi registri stilistici alimentati anche dalla cornice in cui si inseriscono: il Sud con il suo carico di aspettative e di suggestioni narrative e cinematografiche.

La provincia italiana descritta da Ozpetek fa pensare, per esempio, alla Sicilia e al Veneto di Pietro Germi: i volti sghignazzanti dei clienti del bar che il capofamiglia crede di vedere conferiscono al film una buona dose di grottesco. Il rovello dell'anziana matriarca con il suicidio finale, tramite dolciumi, mescola dramma e paradosso. Il ballo finale, dopo il funerale, a cui partecipano tutti i personaggi conferisce visionarietà al film. Carolina Crescentini, nel suo abito da sposa, nel ruolo della nonna da giovane, fa pensare a quelle visioni femminili che a volte si materializzano nel Sud assolato di Sergio Rubini. Non manca la componente sentimentale nell'amore che potrebbe sbocciare tra il giovane Tommaso (Riccardo Scamarcio) e la figlia del socio (Nicole Grimaudo).

Il film, quindi, è ondivago e vagante non solo nei temi e nei personaggi ma anche nella costruzione. L'edificio narrativo riceve non poche scosse, né la pasta, che è una specie di nume tutelare di tutta l'operazione, può diventare il collante universale (nemmeno può diventarlo il ruotare, intorno alla tavola imbandita, della macchina da presa, tipico di un regista che ama i "movimenti circolari" da "hula hoop"). Il film, però, a differenza di altri del regista, non indispone né indispettisce. La scelta di Lecce come ambientazione non ingenera luoghi comuni sul Salento, la Puglia, il Sud. Lo stesso tema dell'omosessualità rischiava di tradursi in retorico discorso contro l'omofobia (anche se la doppia appartenenza dei fratelli sembra un po' esagerata). V'è nel film, a evitare tante trappole di conformismo e di anticonformismo, uno spirito gaglioffo che lo preserva. Tale ardita impostazione viene affidata agli attori che ancora una volta salvano o potenziano una pellicola di fattura italiana.

Scamarcio parla col viso: memorabili gli sguardi incrociati tra lui e la Grimaudo. Elena Sofia Ricci e Ilaria Occhini esprimono un misto di irriducibilità e rassegnazione. Ennio Fantastichini è il padre tutto d'un pezzo che già aveva affrontato in "Viola di mare" (con Valeria Solarino) un problema affine. Lunetta Savino ci regala un altro ritratto, formidabile, di madre del Sud e di donna volitiva. Il fratello maggiore è Alessandro Preziosi a cui è affidato l'ingrato compito dell'"outing" che rischia sempre di trasformarsi in un piccolo proclama ideologico. Se c'è un problema, tuttavia, è di natura estetica. Per citare ancora M. Ciotta è vero che "i diversi sono tutti ‘bei ragazzi', al contrario delle bambine grasse, della domestica, della madre segaligna, della figlia sciatta" (Bianca Nappi).

 

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