Diario di uno scandalo

Una ossessione amorosa di un’anziana insegnante per la giovane collega
 

palco03Le protagoniste di "Diario di uno scandalo" di Richard Eyre si chiamano Sheba Hart e Barbara Covett. "To covet" vuol dire "desiderare ardentemente" mentre "hart" è il "cervo maschio". Il film è la storia di una ossessione amorosa da parte di un'anziana insegnante per la giovane collega (il cervo maschio, appunto). Si nomina due volte Virginia Woolf le cui tendenze saffiche sono note e non dimentichiamo che Judi Dench e Richard Eyre hanno lavorato insieme nel film dedicato a un'altra scrittrice inglese, Iris Murdoch. Queste premesse linguistico-letterarie, però, non condizionano l'opera che, su un altro versante, si regge su dati di cronaca ben lontani dalla letteratura e dai riferimenti simbolico-verbali: ci riferiamo alle notizie sugli amori di giovani professoresse per i loro allievi. Anzi il film si apre con le parole (i pensieri) dell'insegnante di storia che, all'inizio dell'anno, osservando da una finestra gli studenti che entrano a scuola, osserva: "Prima il massimo della trasgressione erano i giornaletti pornografici, oggi sono un coltello e il "crack"; un bel progresso, non c'è che dire". Ma "Diario di uno scandalo" non è nemmeno (o non solo) un'indagine sociologica sulla nuova degenere realtà scolastica (inglese, americana o italiana che sia).

 

Il diario del titolo (l'originale è "Notes on a Scandal": "Appunti su uno scandalo") è di Barbara-Judi Dench a cui appartiene anche la voce fuori campo e quindi il punto di vista del film. O meglio il regista e il magnifico sceneggiatore, (dal romanzo di Zoe Heller) Patrick Marber, per tre quarti si fanno "guidare" dall'insegnante saffica, dominatrice e manipolatrice (una specie di subdola e insinuante Bette Davis), per metterne meglio in luce qualità e difetti. Da un lato, la sua intelligenza caustica e tagliente le fa pensare cose (comprese quelle che ascoltiamo nell'"incipit") assennate e condivisibili; dall'altro, entriamo direttamente nella sua mente "disturbata". Poi, quando gli eventi precipiteranno e il diario verrà scoperto, in coincidenza con la rivelazione della tresca tra la giovane insegnante e lo studente quindicenne (di cui l'anziana era gelosa), il punto di vista diventa esterno.

 

La "narratrice", di cui conosciamo le pieghe più intime e perverse, si fa pedina di una scacchiera più ampia. Il film è pregevole per questa capacità di alternare i punti di vista: mentre conosciamo la deriva omosessuale del personaggio interpretato dalla Dench entriamo pure nell'intimo delle fragilità dell'insegnante di Arte, una debole, appassionata, irrisolta, soave e sensuale Cate Blanchett. Soccombe, all'assedio dello studente quindicenne, per una forma di "transfert" e di risarcimento: lei stessa aveva sposato un suo insegnante da cui malauguratamente ha avuto un figlio "down". Scoperta dalla collega, promette d'interrompere la relazione. Quando Barbara viene a conoscenza che questo non è avvenuto, si serve di un altro professore per far sapere tutto al preside e al corpo docente. Seguirà il licenziamento e la condanna a nove mesi della "seduttrice", oltre a un assedio di giornalisti e di TV pubbliche e private. E sta qui il nodo del film, bellissimo, che sarebbe stato memorabile se, nel finale, avesse seguito un'altra strada. Le parole più struggenti sono pronunciate, fuori campo, dalla Dench in uno dei suoi pensieri più dolorosi.

 

Riferendosi alla giovane amica da lei concupita, dice: "Lei non immagina nemmeno cosa sia la vera solitudine. Specialmente il fine settimana quando l'avvenimento più importante è andare alla lavanderia e quando la mano di un conducente d'autobus che ti sfiora nel darti il biglietto diventa un'esperienza che ti torce le budella". La tragedia esistenziale ed erotica di questa donna è l'estremo isolamento (londinese) sottolineato anche dallo struggente attaccamento al gatto. Il film, quindi, avrebbe potuto privilegiare questa nota sulla quale poi concludersi: il rapporto tra solitudine e deformazione del carattere e della sensibilità; condizione, questa, aggravata da una incoercibile tendenza a essere dominatrice e manipolatrice.

Tale forma di "intimismo", invece, viene travolta dal sensazionalismo quando dal dramma di due anime si passa allo scandalo conclamato che rende pubblico un rovello interiore.

Il finale, poi, dà il colpo di grazia alla tragedia privata. Il film si chiude su una panchina. Qui una giovane bionda legge la notizia della condanna dell'insegnante. Barbara le si avvicina e le dice che lei conosceva la donna perché ne era stata una collega. Poi l'invita a un concerto all'Albert Hall: ha due biglietti, ma se vuole può portare un amico. Alla risposta dell'interlocutrice che non c'è nessun amico, Barbara, sollevata, dice: "Allora, siamo intesi". La scena sembra prefigurare le atmosfere minacciose, perverse, violente e sadomaso di film del tipo di "Che fine ha fatto Baby Jane" o "Psycho" con il ragno che impiglia la mosca. Tanto più che eravamo venuti a sapere che l'anziana aveva fatto un'altra vittima, Jennifer, una collega poi caduta in una profonda depressione. Se fosse stata la solitudine la causa della degenerazione della personalità, il film avrebbe avuto un valore più universale; se è invece la "patologia" (la coazione a ripetere) a determinare il comportamento, l'interesse risulta più limitato. Ma, al di là di questo appunto, il "Diario" resta un film memorabile e necessario che riporta alla mente "Il danno" di L. Malle, tratto dal romanzo di Josephine Hart (potenza dei cognomi!). Ciò che fu detto per quella pellicola si può dire per questa: "film sulla forza del desiderio, sulla caduta" dove il protagonista "sale sul treno rapido della passione che porta alla distruzione della famiglia". Paradossalmente "Diario di uno scandalo", tuttavia, ha un duplice "lieto fine": Sheba-Blanchett viene riaccolta dal marito e Barbara-Dench trova una nuova "amica".

 

 

 

 

 

 

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