Vincenzo Sansonetti: “Sono diventato giornalista e scrittore per caso, ma ha funzionato”

07-06-vincenzo sansonettiNOCI (Bari) – Vincenzo Sansonetti, giornalista e scrittore, in questa nuova intervista oltre a raccontare la sua storia e parlarci delle sue importanti collaborazioni nel corso degli anni con altrettanto celebri testate ed editori, si rivolge a tutti quei giovani che si apprestano ad inseguire questa strada, oggi piena di ostacoli da affrontare. A colpire nelle sue parole è la chiarezza con la quale parla del giornalismo odierno.

Il suo consiglio ai giovani è quello di difendere i propri sogni con umiltà e coraggio e di lasciarsi affiancare in una strada così tortuosa da un maestro che possa indicarci il giusto modo per non lasciarci travolgere dalle innumerevoli difficoltà che potremo incontrare, invitandoci a non cercare il modo per "farci spazio" ma a seguire le nostre passioni.

 

Nato a Noci nel 1952, dopo quanti anni e per quali ragioni ha deciso di trasferirsi a Milano?

Mi sono "trasferito" da Noci a Milano quando avevo poco più di 40 giorni! Mi hanno "fatto nascere" a Noci, e la cosa non mi è mai dispiaciuta. Anzi. I miei genitori, che si erano sposati nel 1950, vivevano da tempo al Nord. Mio padre, Vito, lavorava a Milano negli uffici delle Ferrovie; mia madre, Luigia, era casalinga. Era scesa a Noci all'ottavo mese di gravidanza solo per partorire. Il fatto di essere quasi un nocese "per forza" non mi ha mai pesato. Ho sempre sentito Noci come il mio naturale luogo d'origine, la mia "patria": i miei genitori, che ora sono in Cielo, erano di Noci, a casa si è sempre parlato dialetto, la cucina era rigorosamente paesana. Mi sono poi sempre sentito immerso in una fitta e ricca rete di rapporti parentali (tra i miei numerosi zii c'era don Nicola Novembre, a lungo arciprete, e un cugino di mia madre, Francesco Tartarelli, è stato sindaco alla fine degli anni Cinquanta); nella mia infanzia ho passato tutte le estati a Noci, e ne mantengo vivo il ricordo. Indimenticabili le feste, le luci, i suoni, la fragranza dei dolci, la tenerezza e il gusto dei latticini: tutte queste cose non le ho più ritrovate altrove. Oggi le cose sono un po' cambiate e non vado più nel mio paese natale con la frequenza di un tempo. Tuttavia, ogni volta che ho l'occasione di tornarci è un tuffo nel passato, e noto che Noci continua a fare grandi passi, a crescere, unendo con sapienza tradizione e innovazione.

Giornalista e saggista per importanti testate, come ha iniziato il suo percorso nel mondo dell'informazione e dell'editoria?

Ho iniziato questa carriera un po' per caso, quando un paio di amici mi hanno chiamato per quelle che un tempo erano note come "sostituzioni estive". Laureato da poco in Scienze politiche all'Università Cattolica di Milano, sono stato "abusivo" per un paio di anni, prima di essere assunto.
I miei colleghi più anziani, scherzando, dicevano che "è meglio fare il giornalista piuttosto che lavorare". Si riferivano, credo, al fatto che allora il giornalismo era un mix di genio e sregolatezza: senza orari, senza regole, senza "padroni". Ma si lavorava, eccome: non c'erano telefonini o internet, occorreva documentarsi, muoversi e controllare.
Da 25 anni lavoro al settimanale Oggi, e, nello specifico, mi occupo di cultura, attualità e informazione religiosa, curando una collana di numeri speciali da collezione. Quello per l'informazione religiosa è un interesse che risale agli inizi della carriera, quando lavoravo per il quotidiano Avvenire e collaboravo ad altre testate cattoliche. Ancora oggi scrivo sul mensile Il Timone. Collegata all'attività giornalistica, da qualche anno ho sviluppato anche una proficua attività editoriale. Anche qui, ho cominciato per caso. Mi è stato chiesto alla fine degli anni Novanta di scrivere un'agile biografia su Padre Pio. Poi non mi sono più fermato.

In effetti il suo nome è legato, oltre che alle collaborazioni giornalistiche, a numerose opere saggistiche, strettamente legate all'informazione religiosa...

Cito solo qualche titolo. Ho pubblicato da Ares, con l'amico e collega Riccardo Caniato, un testo (Maria alba del terzo millennio) t sulle apparizioni di Medjugorje, che ha avuto un ottimo successo di pubblico, con continue riedizioni e con traduzioni anche all'estero. Da Rizzoli invece sono usciti vari libri, ancora su Medjugorje, poi su Madre Teresa, su Giovanni XXIII e, da ultimo, su Papa Bergoglio (intitolato Francesco uno di noi, una antologia di citazioni accompagnate da splendide fotografie). Per Piemme ho scritto un libro sull'Immacolata Concezione e, infine, per la Mimep Docete (una piccola ma battagliera casa editrice gestita da suore polacche che vivono in Italia) un instant book su Bergoglio a poche settimane dall'elezione (W Papa Francesco) e un testo che mette a confronto serrato e in modo originale la vita e l'opera dei due Papi santi, Roncalli e Wojtyla (Nel nome di Giovanni, con Alfredo Tradigo).

Oggi i vertici delle classifiche dei libri più venduti sono occupati da best seller, spesso legati a saghe di vario genere o a testi firmati da personalità dello spettacolo, inducendo così a trascurare prodotti di nicchia di altrettanto valore stilistico e contenutistico. Quale ritiene sia il giusto modo per un giovane scrittore esordiente di farsi spazio in un tale scenario editoriale?

Finora non ho scritto testi di narrativa, ma sono da sempre un buon lettore, soprattutto di classici e di autori forse oggi un po' trascurati, come Steinbeck, Graham Greene, Soldati e Pavese. Confesso di non avere particolare simpatia né per certe saghe né per i testi firmati dalle star (che quasi sempre scrivono altri). Due osservazioni. La prima, non fidiamoci delle classifiche, spesso "gonfiate" ad arte dagli Editori, che forniscono cifre di vendita poco credibili, cui si aggiunge il fenomeno dell'autore di grido acquistato ma non letto: si fa bella figura a mettere in mostra sullo scaffale di casa l'ultima opera di Umberto Eco o di Vito Mancuso, ma quanto a leggerle è un altro discorso! Seconda osservazione: non metterei da una parte i best seller e dall'altra gli autori o i titoli cosiddetti di nicchia. Un libro o è valido o non lo è, indipendentemente dalle copie vendute. I libri che nutrono lo spirito e fanno crescere come persone (a questo secondo me dovrebbero servire, l'evasione non è sufficiente) sono pochi. E magari sempre quelli. Chi oggi legge ancora Dante? O Manzoni? Nemmeno la scuola, purtroppo, ci crede più, e punta semmai a propinare orrendi testi "politicamente corretti" tesi più a indottrinare che a educare. Non ho consigli particolarmente originali da dare a un giovane scrittore, se non di leggere molto e di non trascurare i classici, per avere idee e imparare a scrivere. La prima preoccupazione è scrivere ciò che piace, non "farsi spazio".

Mettendo a confronto il giornalismo italiano degli anni Ottanta con quello odierno, quali cambiamenti (evoluzioni o regressi) ha avuto modo di riscontrare?

L'evoluzione tecnologica c'è stata tutta, ed è sotto gli occhi. Io ho cominciato a metà degli anni Settanta con la composizione a piombo e le linotypes. Le notizie arrivavano per telefono o telescrivente. I pezzi si scrivevano a macchina e poi si mandavano a comporre; e c'era sempre un certo intervallo tra l'invio dei testi in composizione e la chiusura in tipografia. Insomma, si respirava. Non c'era il bombardamento continuo e ossessivo di oggi. Chi sceglieva la carriera di giornalista lo faceva per passione, non per mestiere o per calcolo. Tutti erano pronti a una gavetta anche lunga e ad accettare il rischio con la consapevolezza che i risultati prima o poi sarebbero arrivati. Il degrado – sono mie opinioni, è chiaro – è iniziato nel momento in cui l'accesso al giornalismo non ha più richiesto una pregressa preparazione culturale: tutti a voler fare i giornalisti, con una notevole presunzione. Un andazzo che negli ultimi tempi si è andato un po' esaurendo, anche a causa della drammatica crisi che sta investendo il settore: testate che chiudono, giornalisti a spasso. Oggi ci sono troppe testate, gli editori mostrano poche idee e poco coraggio, la continua ricerca sulla Rete comporta la scarsa autorevolezza delle fonti e, in particolar modo, oggi mancano le grandi firme di un tempo.

Quale consiglio rivolgerebbe a tutti quei ragazzi che cercano di farsi spazio in questo settore e che sempre più spesso si trovano ad accettare condizioni poco agevoli o a investire in progetti privi di garanzie future?

Dimentichiamo la parola "spazio" e sostituiamola con "passione". Concludo in modo lapidario, con tre consigli. 1. Evitate di fare i giornalisti. Qualunque professione o mestiere, ma non i giornalisti. Piuttosto i cuochi, o gli idraulici, o i mediatori culturali: tutti lavori sicuri e anche gratificanti. Non è il momento di fare i giornalisti, forse le cose cambieranno fra tre/cinque anni o più. 2. Se proprio insistete, se è la vostra passione, la vostra vita, e non vi importa né della fame né delle umiliazioni, allora prendete questa professione molto seriamente. Studiate, preparatevi, leggete, andate all'estero, non abbiate paura di fare anticamera e di guadagnare poco, all'inizio, siate disposti ad accogliere gli insegnamenti di chi vi guiderà in questo percorso; e soprattutto non siate ideologici, faziosi, di parte, non usate la professione e i giornali o i siti per cui lavorate come una tribuna. Dovete solo informare, e bene, correttamente, i vostri lettori. 3. Fame e umiliazioni, o meglio fatica, non significano in ogni caso asservimento e schiavitù. I sacrifici vanno bene, ma c'è un limite: non accettate contratti capestro e condizioni da galera, difendete i vostri diritti. E ricordatevi: c'è il sindacato. Che magari sbaglia, tutti sbagliano, ma c'è, ed esiste per voi, quasi come... un angelo custode!

 

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