La donna è un'isola

temTemperamente - La donna è un’isola è un chiaro stravolgimento della poesia di John Donne a cui anche Hemingway si era ispirato per il suo Per chi suona la campana. Contro questi due mostri sacri della letteratura, Auður ava Ólafsdóttir pone la sua dichiarazione di indipendenza a titolo del romanzo, con grazia controllata e affascinante. Come la sua penna.

Trentatreenne, interprete multilingue con un metodo professionale tutto suo (consegna a mano i suoi lavori quando sono finiti, facendosi anche km nella neve e nel buio islandese), nella vita della protagonista succedono uno dopo l’altro diversi cambiamenti. Primo: il marito la pianta. Secondo: vince uno chalet che può farsi montare dove vuole nell’isola – una cosa tutta islandese che per metà libro non avevo completamente chiara in mente -; secondo bis: poco dopo vince anche un’altra ragionevole fortuna (questo invece mi ha fatto pensare che ogni tanto buttar soldi nelle lotterie può essere utile). Terzo: un bambino sordo e mezzo cieco arriva nella sua vita. No, non è un suo figlio abbandonato e poi ritrovato, ma il figlio dell’amica Auóur, in procinto di un parto gemellare, che pensa che per il primogenito – avuto da un altro non ben specificato padre – sia meglio passare quest’ultimo periodo della gravidanza (tre/sei mesi) con lei. E quando ti affidano un compito simile è impossibile dire di no.

In questa trama già ricca di scombussolamenti, inizia il viaggio: Tumi (il bimbo) e la nostra senza nome (o dal nome impronunciabile, come avrete potuto vedere dagli altri attanti) protagonista partono per raggiungere lo chalet, che è stato fatto posizionare nella terra in cui abitava la nonna e lei andava a passare le estati.

Questo libro ha fatto scaturire un sacco di domande: come sono le stagioni in Islanda (perlopiù si parla di pioggia, neve, buio e poche ore di luce)? com’è fatto il linguaggio dei segni? quanto sarà difficile impararlo? com’è la cucina islandese? che bello dev’essere fare un viaggio, iniziarlo e non sapere quando terminerà, né volerlo sapere o dover per forza prefissare il suo termine… quest’ultima non era una domanda ma una considerazione spontanea.

Ólafsdóttir ricostruisce un ambiente per me totalmente ignoto rendendolo interessante e riuscendo a stimolare la curiosità e la volontà di saperne di più (non dico che adesso voglio andare in Islanda, però…) ma ciò che fa con molta più scaltrezza e innegabile bravura è rendere tutto familiare, conosciuto. Leggo e mi sembra di conoscere questa sua bizzarra protagonista dalla mente agilissima, vita sessuale disordinata e cuore emotivamente in subbuglio.

La maggior parte delle mie memorie finisce a letto. Avere vicino il corpo giusto con il giusto profumo: questo, per me, significa «matrimonio». Mentre «casa», più che il luogo dei grandi discorsi profondi e filosofici, è il tesoro nascosto nei nostri corpi. Dopodiché, sì, bisogna pensare al bucato e alla cucina, ma sempre con la coscienza che sarà il corpo a beneficiarne.
Adesso, tutte le volte che compilo un form online e clicco I per ‘Italy’ e in primis esce ‘Iceland’, sorrido, tra me e me, e il merito è tutto suo. Il perché della cucina islandese, invece, sono le 47 ricette in appendice – metà inventate, metà reali – al libro. Alla fine non lo so se concordo davvero con l’espressione che la donna è un’isola; certo è che questo libro lo è, e così la sua protagonista: un’isola bianca, ricoperta di neve ma non fredda, candida, bella, accogliente, ricca di meraviglie e assolutamente appagata e autarchica.

Au∂ur Ava Ólafsdóttir, La donna è un’isola, Einaudi, 1984

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