La psicologia del giocatore di scacchi

temTEMPERAMENTE - «Definendo gli scacchi un gioco, non ci si rende però già colpevoli di un’offensiva limitazione? Non sono anche una scienza, un’arte, categorie tra cui rimangono sospesi come la bara di Maometto fra cielo e terra, un vincolo straordinario fra tutte le coppie di opposti? Antichissimo eppure eternamente nuovo, meccanico nell’impostazione ma dipendente dalla fantasia, confinato in uno spazio rigidamente geometrico e ciò nonostante sconfinato nelle sue combinazioni, sterile eppure in continua evoluzione».


Ciò che Stefan Zweig scrisse ne La novella degli scacchi, Reuben Fine lo sottoscrive in un brillante volumetto sulla psicologia del giocatore. Mentre chi non se ne interessa giudica questo sport come una pratica assai fredda, monotona e noiosa, eccessivamente intellettuale, quasi una sorta di parole crociate di alto livello, chi lo pratica è al contrario investito da una tempesta di emozioni tale da contemplare l’esaltazione, lo scoramento, l’aggressività e, in breve, tutto ciò che un anonimo ecclesiastico del Seicento racchiuse sotto la definizione de «il male degli scacchi». Gli scacchi turbano la pace, distolgono da ogni altra attività, prosciugano ogni umore e risucchiano tutto il tempo e tutti i pensieri; eppure, nonostante questa consapevolezza, il giocatore continua a giocare una partita dopo l’altra. E la domanda che si pone Fine è… Perché?

Innanzitutto, gli scacchi sono una riproposizione della guerra. Due schieramenti opposti che si danno battaglia fino alla cattura del re – ricordiamo che “scacco matto” deriva dall’espressione “shah mat” o “scià màt” che vuol dire “il re è morto, il re è stato catturato” (il re di Persia è, appunto, lo scià) – e che passano attraverso una serie di “sacrifici”, di strategie e di promozioni. La simbologia dei pezzi (dal cavallo alla torre, fino allo stesso re) è abbastanza chiara; ragion per cui la tendenza di alcuni campioni (come il russo Alechin) ad attaccare, è stata vista da molti analisti degli scacchi come una sublimazione degli impulsi sadici verso il padre.

Emblematico, poi, il caso di Capablanca, probabilmente il più forte giocatore del primo Novecento. Innovatore e artistico, una volta divenuto campione del mondo iniziò a manifestare una certa deconcentrazione durante le partite, come se il suo interesse fosse andato scemando dopo aver sconfitto il “padre” Lasker, suo maestro. A questo punto, Fine opera una distinzione molto interessante tra “gli eroi” (Alechin, Capablanca, Morphy, Steinitz) e gli “anti-eroi” come Staunton e Anderssen, che guardavano agli scacchi come a una qualsiasi sfida intellettuale, e che infatti si dedicarono con successo anche ad altre attività, incluse attività letterarie.

Aggiungiamo, a questo proposito, che la letteratura scacchistica, ovvero l’insieme dei manuali per principianti e delle raccolte delle partite dei maestri, supera di gran lunga quella di tutti gli altri giochi messi insieme.

Quanto alle sezioni su Bobby Fischer e Boris Spassky, forse le più interessanti del volume, offrono una commistione tra dei “casi clinici” e la psicologia dello sport. Il gioco degli scacchi, cioè, concorrerebbe per sua stessa natura a sviluppare, in chi lo pratica, fantasie di onnipotenza, narcisismo e, allo stato più primitivo, megalomania ed esibizionismo. Quando non depressione e paranoia (paura di essere attaccati). Ma che dire della personalità del giocatore medio? Se questi quadri sono stati ricavati dalle partite e dalle biografie dei grandi campioni, il discorso è diverso per chi vi gioca per divertimento e non a livello professionistico, o magari (come il sottoscritto) addirittura per rilassarsi. Certo è che l’aggressività, qui, è sempre accompagnata da una energia psicologica ben superiore a quella sprigionata da chi pratica braccio di ferro o tiro alla fune.

Reuben Fine, La psicologia del giocatore di scacchi, Adelphi, Piccola biblioteca, Milano, 184 pp., 13 euro

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