Un coraggioso film di denuncia politica capace di coniugare la cronaca recente con la Storia
Si potrebbe parafrasare “Blood Diamond” (“Diamante insanguinato”), al Seven, con il titolo di un altro film “Alla ricerca della pietra verde” se non addirittura facendo riferimento alle parodie di “La pantera rosa”.
In tutti i casi, infatti, la protagonista è una pietra: qui un diamante rosa di ragguardevoli proporzioni trovato da un minatore nella Sierra Leone più di dieci anni fa. Una nazione intera è mobilitata alla ricerca del diamante: ciò comporta avventure rocambolesche con incontri e scontri di coloro che vogliono impadronirsi della gemma.
Tanto più che la pietra preziosa è stata sepolta: per cui ciò a cui assistiamo è una variante della classica caccia al tesoro (non manca nemmeno lo sbocciare di un legame tra due protagonisti: il contrabbandiere e la giornalista). Ma ciò che deve metterci sull’avviso è la parola “Blood” (“sangue”) usata come aggettivo (“insanguinato”). Ne scorre a fiotti sullo schermo, tanto che si potrebbe ipotizzare che questo film di Edward Zwick appartenga anche al genere “gore” se non proprio “splatter”, dove il fine è appunto lo spargimento di sangue a danno di personaggi più o meno sprovveduti e più o meno fatti a pezzi. Invece, tutti questi elementi, appartenenti a generi cinematografici diversi, sono finalizzati alla messinscena di un coraggioso film di denuncia politica capace di coniugare la cronaca recente con la Storia.
Si pensi all’osservazione di un personaggio secondo cui i primi a tagliare le mani agli indigeni furono i Belgi (e ciò ci rimanda al Congo Belga del conradiano “Cuore di tenebra”). Poi si osserva che oggi si tratta di diamanti ma che in passato si è trattato di avorio, petrolio, oro, caucciù. Se la struttura del film è avventurosa, tale avventura è finalizzata a evidenziare le atrocità del neocolonialismo basato sulla rapina delle materie prime da parte dell’Occidente (i diamanti della Sierra Leone come il petrolio dell’Iraq). “Blood Diamond”, quindi, nel momento stesso in cui appassiona, fa riflettere anche in modo lancinante. Zwick è chiarissimo (assieme allo sceneggiatore Charles Leavitt), per esempio, nel mostrare come i ribelli antigovernativi del R.U.F. (Revolutionary United Front) saccheggiavano e distruggevano i villaggi uccidendo chi non serviva e reclutando da un lato uomini robusti per farne dei minatori e dall’altro ragazzi da narcotizzare e indottrinare per ingrossare le fila del proprio esercito (chi si salvava andava a finire in campi profughi allestiti nelle nazioni confinanti). E’ impressionante vedere questo esercito di ex bambini abituatisi in poco tempo a uccidere e finalmente riusciamo a dare un senso a quegli articoli letti distrattamente che parlano di migliaia di minorenni impiegati nelle varie guerre in giro per il mondo. L’Occidente è fatto a brandelli dagli autori: si pensi alle scene tirate a lucido girate in una Londra asettica e fascinosa (per inciso, l’emissario della multinazionale incaricato dell’acquisto del diamante è interpretato dall’attore che ha impersonato Blair in “The Queen”). Su questo sfondo di accurata ricostruzione storica (anche se si tratta di avvenimenti di una decina di anni fa) si staglia la vicenda umana dei protagonisti. I vari personaggi sono delineati con acume e precisione senza evitare l’ironia. Di tutti, senza retorica, si mostrano vizi e difetti. Si pensi alla giornalista interpretata da Jennifer Connelly, all’inizio fanatica e furbetta nella sua ricerca di informazioni per i suoi articoli: una donna, a mezza strada tra il rampantismo occidentale e l’umanitarismo idealistico, che man mano si rivela persona autentica.
Infatti la sua smania di corrispondente di guerra, sempre alla ricerca dei luoghi più pericolosi, si rivela dettata più da una tenace volontà di capire che da un esibizionismo fine a se stesso. Giganteggia su tutti (oltre a Djimon Hounsou, epitome del capofamiglia forte e tenace) Leonardo Di Caprio nel ruolo dell’ex mercenario diventato contrabbandiere, con i genitori sterminatigli davanti agli occhi in Sud Africa quando aveva nove anni. L’attore è magistrale nelle varie fasi attraversate dal suo personaggio: dal cinismo all’umanità, dalla violenza alla tenerezza, dalla determinazione alla sofferenza. Il pregio del film (la cui Africa è meravigliosamente fotografata da Eduardo Serra) sta proprio in questo: nella capacità di contemperare il dettaglio con la descrizione panoramica, tenendo sempre presenti, al contempo, il più sottile particolare umano con la più vasta problematica storica, sociale e politica.