PUTIGNANO (Bari)- Si è svolta lo scorso 14 febbraio, alle 17:30, presso la Sala Consiliare del Comune di Putignano, la presentazione del libro “Matite Sbriciolate”, scritto da Antonella Bartolo ed edito da Rubbettino editore.
La Bartolo, Barese di nascita e Piemontese d’adozione, è la sorella della professoressa Lilly, biologa e storica presidente della DARF di Noci. (n.d.r). Ella ha voluto raccontare una storia rimasta a lungo sommersa: quella di una resistenza senz’armi. La resistenza dei soldati Italiani che, chiamati a scegliere tra l’adesione alla Repubblica di Salò (ergo un rinnovo della fede politica fascista) e la deportazione, hanno scelto stoicamente quest’ultima. Storie personali che non hanno avuto la ridondanza di quelle dei partigiani, acclamati come Eroi Nazionali o degli ebrei miracolosamente sopravvissuti ai lager, ma racchiudono comunque altrettanto coraggio e altrettanta indicibile sofferenza. Antonella Bartolo è partita da dei disegni a matita che raffiguravano quei luoghi di dolore.
A realizzarli era stato il suocero dell’Autrice, Antonio Colaleo, che lei chiama “Nonno Antonio”, proprio perché la sua storia, è la stessa vissuta sulla pelle di tanti nostri nonni. Tra di essi, anche il nonno di Domenico Giannandrea, sindaco di Putignano. Per questo, il Primo Cittadino, ha accolto solertemente l’invito della Bartolo, non nascondendo la sua emozione dei saluti iniziali. Un’emozione che solo chi si sente toccato da vicino da quelle schegge di storia può provare.
Quando parliamo di Resistenza, a cosa pensiamo? Certamente ai partigiani con il loro fazzoletto rosso annodato al collo, che intonano la “Bella ciao” e imbracciano il fucile. Se diciamo “lager” cosa ci viene in mente? Sicuramente la Shoah , sicuramente gli ebrei con i loro curiosi vestiti a strisce. Automi con gli occhi vuoti, con un numero marchiato sulla poca pelle che restava attaccata alle ossa. Antonella Bartolo invece, ha dato voce ad una storia relegata per lungo tempo all’oblio, che fortunatamente inizia ora a destare interesse e a suscitare interrogativi. Si tratta di una storia non meno pregna di coraggio e sofferenza e di certo non meno degna di memoria. All’indomani dell’8 settembre e dell’istituzione della Repubblica di Salò, migliaia di soldati vennero chiamati a scegliere tra il rinnovo della propria fedeltà al Duce e la deportazione in campi di concentramento. Dato che la deportazione significava libertà, dignità e vero amor di Patria, furono moltissimi quelli che la scelsero stoicamente.
Tra di essi ci fu Antonio Colaleo, suocero dell’Autrice.
I 34 disegni a matita trovati nei cassetti di “Nonno Antonio”, (così è stato sempre chiamato in famiglia) raffigurano con dettagliata precisione i luoghi della sua prigionia. Si tratta di Deblin (Polonia), Biala Podlaska (sempre in Polonia) e Sandbostel ( Germania). La passione per il disegno aveva sempre animato Antonio, che non avrebbe saputo vivere senza le sue matite. Per far si che durante le perquisizioni, i tedeschi non gliele trovassero, Colaleo escogitò un metodo ingegnoso. Sbriciolando la parte legnosa, estraeva accuratamente le sole mine in grafite, che in tasca avrebbero occupato pochissimo spazio, non risultando praticamente rilevabili al tatto. I tedeschi infatti, rimasero del tutto ignari di quella piccola magia che Antonio si portava in tasca. La tenue dolcezza dei pastelli, sembra riuscire ad esautorare quasi totalmente i lager dal senso di terrore che inevitabilmente incutono. Fanno un po’ meno paura se disegnati con quei colori pacifici, intrisi di speranza, che eliminano quel retrogusto amarissimo di sofferenza, di umiliazione e di morte. Quando Antonio era ancora in vita (è scomparso nel lontano 1994), la nuora Antonella, incantata ed incuriosita da quei disegni, gli chiese di raccontarle qualcosa in più in merito alla storia che vi era immortalata, poiché le sarebbe piaciuto pubblicare il tutto.
“Pubblicare? E perché? Sono storie che ormai non interessano più
a nessuno! Già appena rientrato dalla prigionia mi dissero che bisognava dimenticare ed andare avanti!”- rispose Antonio stringendosi nelle spalle.
Quelle parole, semplici ma “forti”, sortirono nell’animo della Bartolo l’effetto opposto: rafforzarono ancora di più il desiderio di perseguire il suo intento. Non era affatto vero che ormai nessuno avrebbe nutrito interesse per questa dolorosa fetta del passato, perché la storia ci riguarda sempre tutti: ad uno ad uno e da vicino.
“Riuscii così a convincere mio suocero, ma si presentò poi un ulteriore problema: da dove cominciare? Dai racconti di Antonio avevo potuto carpire solo informazioni frammentarie, prive di precisione per quanto concerne il nome dei luoghi e di molti coprotagonisti della sua storia”- ha confessato la Bartolo- “Non mi sono però lasciata scoraggiare e prendendo come punto di partenza i disegni, ho allargato le mie ricerche. Sono andata a caccia di testimonianze, di gente che avesse vissuto direttamente la stessa esperienza di mio suocero, o dei loro stretti parenti che magari avevano carpito i loro racconti e ne serbavano memoria. Insomma, ho sfilato tante altre storie personali per ritesserle assieme a quella di Antonio. Per avere proprio un impatto visivo, sicuramente decisivo, mi sono anche recata in alcuni dei posti che sono stati teatro del suo calvario”.
Sono stati proiettati in sala due video al fine di mostrare dal punto di vista storico quale fosse la condizione di moltissimi militari al tempo. Il primo realizzato da Ermanno Olmi, dal titolo “I soldati italiani nelle prigioni di Hitler” e il secondo tratto dal film “Tutti a casa” con Alberto Sordi.
“Come avrete capito dallo spezzone del noto film di Sordi, si trattava di un esercito allo sbando: soldati che non ricevevano più ordini e per un militare è a cosa più assurda. Il video di Olmi ci presenta in maniera chiara qual era la situazione all’interno dei campi di prigionia. Il termine “Internato militare” serviva solo ad “indorare la pillola” ma in realtà erano veri e propri prigionieri di guerra”- ha spiegato la signora Bartolo.
Leo Faniuolo ha letto con grande capacità interpretativa alcuni significativi passi del libro, andando dritto al cuore della platea, com’è risultato evidente dagli sguardi commossi.
“In quei luoghi, dove anche il cielo era ridotto a qualche brandello grigio, i nemici erano la fame, il freddo, i pidocchi, le cimici e malattie che si diffondevano a macchia d’olio anche a causa delle condizioni igieniche quasi assenti. Una fame che arrivava a togliere completamente la lucidità e che portava i soldati a rovistare freneticamente tra la spazzatura: quando venivano trovate alcune bucce di patate, era una festa per tutti. Così come si scatenava, all’interno delle baracche, una vera e propria “caccia al topo”. Ad ogni minimo rumore, ci si poneva in allerta e se si sentiva squittire, si esultava perché significava riempirsi la pancia”- Ha detto senza mezzi termini l'Autrice.
"In quei luoghi di morte però, la vita riusciva a ritagliarsi ancora i suoi spazi. Lo faceva attraverso le belle e autentiche amicizie che nascevano: ci si sosteneva l’un l’latro e il calore umano, forse rendeva appena più sopportabile il freddo. Gli ufficiali tedeschi tentarono più volte di circuire i soldati italiani: “Non vi costa nulla aderire alla Repubblica di Salò: farete ritorno alle vostre case, riabbraccerete i vostri familiari, starete al caldo e potrete nutrirvi e lavarvi regolarmente”. Molti resistettero continuando a preferire la dignità, ma quelli maggiormente debilitati, gettarono la spugna. La fame è fame e solo chi è attanagliato da quei morsi allo stomaco può capire quanta lucidità siano in grado di sbriciolare. Nei campi di prigionia, fioriva anche l’arte: altra meravigliosa espressione dell’attaccamento alla vita. “Voi vi chiederete come sia stato possibile pensare a coltivarla quando si era annebbiati dalla fame e provati dalla sofferenza e dalla malattia!Evidentemente, in “assenza fisica” di cibo, i soldati hanno continuato a nutrirsi di arte: unico pane che non poteva essere razionato o sottratto. Ma arte voleva dire sentirsi ancora vivi, sentirsi ancora uomini e non larve”.
Tra i prigionieri, vi erano persone molto colte ed innamorate dell’arte nelle sue più variegate forme. I luoghi di prigionia di Nonno Antonio, ad esempio, furono gli stessi in cui vennero internati il famosissimo scrittore Giovannino Guareschi e l’attore Gianrico Tedeschi. Tra gli ufficiali italiani, vi erano anche esperti chimici, che con la collaborazione di tutti riuscirono a realizzare un qualcosa di impensabile: una radio clandestina.
Nel campo di Sandbostel, venne introdotta furtivamente una valvolina, all’interno di una borraccia il cui fondo tagliato, fu poi riattaccato col catrame. Abilissimi procacciatori di materiali, riuscirono a reperire il resto dell’occorrente all’interno del campo di prigionia.
Si trattava dei materiali più improbabili: brillantina, monete, pezzi di lamiera zincata, barattoli vuoti, acido dei vasetti di sottaceti e chiodi. Venne distillato il liquame delle latrine e fuso il catrame che ricopriva le assi di tetti delle baracche. Si arrivò addirittura a sottrarre la dinamo di una bici appartenente ad un maresciallo tedesco.
Nacque così “La Caterina”, la radio clandestina di Sandbostel.
L’ascolto avveniva dalle 21 alle 23, quando regnavano il buio e il silenzio. Dopodichè la radio veniva smantellata pezzo per pezzo e ciascuno degli ufficiali ne conservava uno, in modo che fosse più semplice riassemblarla al calar della sera successiva.
Antonella Bartolo ha raccolto in proposito la testimonianza del tenente Oliviero Oliviero, che nel libro racconta: “Nel buio della notte, facevo delle vere e proprie acrobazie auditive per riuscire ad estrarre informazioni dall’auricolare. Inizialmente l’ascolto era tutt’altro che facile, ma riuscivo a ricevere Radio Londra, Berlino, Busto Arstizio, Parigi e Radio Bari”. Il 7 giugno del 1944, gli addetti all’ascolto captarono chiaramente da radio Londra la notizia dello sbarco degli Alleati sulle coste della Normandia. Come diffondere la sensazionale notizia evitando le crude reazioni dei tedeschi? Realizzammo un gran numero di barchette, con ogni brandello di carta che riuscimmo a recuperare: una vera e propria flotta cartacea e le facemmo galleggiare nel laghetto di Sandbostel. Fu una beffa colossale: i tedeschi non capirono e si affannarono unicamente a liberare il laghetto dal mucchio di barchette.
Dall’altra parte del reticolato però, i prigionieri francesi avevano perfettamente recepito il messaggio e urlavano di gioia”.
Alla fine dell’incubo della prigionia, furono in pochissimi quelli che riuscirono a tornare. Scheletrici e deformati nel fisico dalla malattia e dagli stenti, erano consci che a casa, i loro cari avrebbero potuto non riconoscerli. Per questo motivo inviavano dei biglietti che annunciavano il loro arrivo, supplicando i familiari di credere che chi avrebbero avuto di fronte era davvero il proprio congiunto.
Per Nonno Antonio come per altri ex prigionieri, il viaggio di ritorno durò una quindicina di giorni. Stipati nei vagoni che trasportavano bestiame, aspettavano solo di far ritorno alle loro case. La stazione di Pescantina, l’unica che non era stata distrutta dai bombardamenti, diventò punto di sbarco obbligatorio per i soldati. Era la stessa che aveva visto partire la maggior parte di loro. Ad accoglierli un gruppo di donne definite “gli Angeli di Pescantina” (in seguito si sarebbe costituita la Croce Rossa), armate di vestiti puliti, acqua e cibarie. Nell’aria risuonavano le note della canzone “Mamma”, divenuta un vero e proprio inno dei soldati che riabbracciavano le vecchie e stanche madri. Il cuore si stringeva e le lacrime sgorgavano a fiumi. Nessuno inizialmente riusciva a capire da dove provenisse quella musica e chi cantasse. L’arcano venne poi svelato: il parroco, rivolgendosi alla stazione radio più vicina, chiedeva di far partire il disco e le emozionanti note si diffondevano con la forza di un collettivo abbraccio.
“Mamma son tanto felice perché ritorno da te”, dice il testo della canzone: solo questo ormai contava per quei poveri ragazzi. Additati dai fascisti come “traditori della Patria” e accusati dai partigiani di non aver avuto sufficiente coraggio per imbracciare le armi, gli affetti restavano l’unico porto sicuro in cui rifugiarsi e dimenticare.
Dimenticare: un parolone altisonante e quasi ridicolo per chi ha vissuto un dolore simile, a cui si aggiunge beffarda anche questa “damnatio memoriae”. Tanti, compreso Antonio Colaleo, se l’erano anche imposti di dimenticare e avevano accettato che lo facessero anche gli altri. Erano tornati alla stregua di quelle matite: sbriciolati ma ancora in grado di disegnare l’avvenire. Andare avanti doveva essere l’imperativo e le parti più tristi della storia era meglio chiuderle in fondo a dei cassetti. Tre cose però vengono sempre a galla come l’olio: la verità, il dolore e la storia. E sono così riemersi quei disegni, dove anche la sofferenza e la bruttura sono raccontate con pudica dignità e perfino intrise di bellezza. Solo uno di dei 34 fogli di carta nel cassetto non c’è mai stato: quello raffigurante la “Madonna dell’internato”.
“Questo l’ho sempre tenuto incorniciato ed esposto in salotto, perché a lei devo il miracolo di esser riuscito a far ritorno in Italia e di continuare la mia vita assieme ai miei cari”- aveva dichiarato Nonno Antonio, che si era sempre aggrappato alla fede, prima ancora che all'arte. Un libro che va assolutamente letto, perché quanta più storia conosciamo, tanto più grande sarà la porzione di futuro che riusciremo migliorare. A fine serata, sia Antonella Bartolo che il sindaco Giannandrea, hanno rivolto un invito a quanti nella platea avessero la fortuna di poter raccogliere testimonianze dalla viva voce dei nonni o di anziani parenti.“Ascoltateli quando vi accorgete che hanno voglia di raccontare! Anzi: ponete voi stessi quante più domande potete, perché un giorno potrebbe non esserci più nessuno a rispondere. Siate curiosi e affamati di storia”.