TRIESTE (TS) - E’ l’8 marzo 2020, sono le 19:07. Una delle gelaterie più celebri di Trieste (che ha aperto da qualche giorno, dopo un paio di mesi di ferie) è stracolma: in tanti gustano il gelato più buono della città a poche decine di centimetri di distanza interpersonale. Se c’è una cosa che ricorderò della situazione contingente al coronavirus è che i droplets (in italiano goccioline) che di solito produciamo quando parliamo, starnutiamo o tossiamo raggiungono una distanza massima di 1,82 metri.
Droplets è solo una delle parole che sono entrate nel vocabolario dei più negli ultimi giorni. Seguono virus, patologie pregresse, anestesisti, intubazione, virologo, infettivologo. Di sicuro è un’occasione quantomeno nefasta per ampliare il proprio vocabolario, ma che offre anche lo spiraglio per una piccola analisi sul nostro essere e agire.
Se c’è una cosa che ho imparato in questi giorni è che siamo tutti parte di una comunità. Che questa sia planetaria, nazionale o comunale, siamo in una rete inestricabile in cui le decisioni e le azioni del singolo, per quanto possano sembrare private, si riversano a cascata sulla collettività. Non è una scoperta sensazionale né recente: basti pensare ai vaccini e all’effetto “gregge”, alle raccolte di solidarietà e al 5 per mille, alla differenziata e al consumo individuale di plastiche non riciclabili. Forse oggi, rispetto a qualche mese fa, ne sentiamo il peso perché vediamo le conseguenze tangibili delle azioni degli altri su di noi, che siamo la collettività. E così un viaggio, uno starnuto, l’andare in pronto soccorso o l’organizzare una cena ci pongono difronte a scelte di salute pubblica.
Ore 19:16. Il treno regionale veloce Trieste Centrale – Venezia S. Lucia sembra non essere stato toccato dal più recente decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il capolinea è da questa mattina in Zona Rossa, ma la corsa ha l’utenza a cui sono stato abituato negli scorsi mesi. Nel marasma di queste settimane, ciò che non cambia ci rende circospetti e dubitosi.
Perché un’altra cosa che Sars-CoV-2 (chiamiamolo col suo nome) mi ha insegnato è che basta poco tempo perché alcune cose cambino. Ad esempio il significato delle parole: basti riflettere su ciò a cui, qualche settimana fa, ci avrebbero fatto pensare “distanza di sicurezza” (al codice stradale?), “mascherina” (il carnevale è appena finito) oppure “corona” (non credo ci sia bisogno di specificare, in questo caso). Non solo parole. Nell’inizio del 2020 hanno fatto notizia numerose aggressioni contro il personale sanitario: oggi la riconoscenza nei loro confronti è indubbia. Nelle nostre menti quanto è cambiata la percezione dell’influenza? Quanto quella della ricerca scientifica?
Ore 19:58. L’aeroporto di Trieste, come al solito, non gode di una grande folla di persone. Dopo numerosi viaggi sulla tratta Trieste-Bari, però, la sensazione è che oggi ci sia più gente. Londra, Bari e Catania le destinazioni dei voli di questa sera. C'è chi si saluta con un bacio appassionato, in una romantica disobbedienza. Ad attendere il gate c’è qualcuno con la mascherina tradizionale, c’è chi ha quella col filtrante, c’è chi improvvisa – inutilmente - con la propria sciarpa.
Ciò che più ho capito in queste settimane è che abbiamo paura. L’uomo post-illuminista, post-idealista e post-modernista non è ancora riuscito a domare la più primitiva delle emozioni. Per quanto ci crediamo razionali, di fronte a questo nemico così invisibile e inafferrabile abbiamo riscoperto la carica inarrestabile dell’irrazionale. E così c’è chi diffida di direttive, ordinanze, decreti e qualsiasi tentativo di tracciare un limite al proprio libero e insindacabile arbitrio. Al contrario, c’è chi impugna tali limitazioni e tenta di rendere concreto quel nemico così immateriale. La paura si incanala, di volta in volta, sul primo termine disponibile: i cinesi, un manager lombardo, gli abitanti di Codogno, i fuorisede che assaltano i treni diretti verso il Sud; alla ricerca di un’Estasia o un’Eurasia a cui dare la colpa dell’ennesima minaccia al proprio continente.
Ore 22:40. Il mio aereo atterra a Bari. Ad ogni passeggero è misurata la temperatura corporea dal personale sanitario.
L’ultima cosa che ho imparato da tutto questo è l’importanza dei piccoli gesti. Come salutarsi “dandosi i piedi” piuttosto che stringendosi la mano. Come chiamare il proprio medico curante e informare del proprio ritorno dal Nord Italia, pur non essendo partito da una zona rossa. Come scegliere con cura le fonti da cui informarsi. Come tutta quella serie di azioni che, quotidianamente, ci vengono ripetute: lavarsi le mani, non uscire di casa e non frequentare luoghi affollati, non correre al pronto soccorso se si hanno sintomi, et cetera. Piccoli gesti di estrema importanza. In fondo è ciò che siamo noi: banalità con un potenziale enorme.