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L'angoscia del pensare

temperamentenuovoTemperamente - Confrontandosi con molti scrittori moderni, in particolare della cultura francese contemporanea, si può avere l'impressione che l'attività della lettura non dipenda tanto «da una captazione immaginaria», quanto piuttosto dalla capacità di sopportare gli effetti di stati emotivi, più o meno violenti e destrutturanti, che il testo è in grado di esercitare. Antonin Artaud parlerà, a questo proposito, di una «angoscia in cui la mente resta strangolata».

In altre parole, il lettore è soggetto all'esperienza angosciante di non poter resistere a quei reali effetti di transfert che la scrittura esercita su di lui, e spesso addirittura manifestando «una certa attitudine alla dissociazione». A dirlo è Evelyne Grossman, docente di Letteratura francese moderna all'Università di Parigi VII "Denis Diderot", che ha raccolto i suoi studi nel volume L'angoscia del pensare – Artaud. Beckett. Blanchot. Derrida. Foucault. Levinas. Lacan (trad. it. Moretti & Vitali, Milano 2012, 18 euro).

Dissociare e associare, slegare e riannodare: sono questi i movimenti impliciti nella scrittura e nella lettura dei testi di Maurice Blanchot e di Jacques Derrida, che non a caso parlava di decostruzione. Ma non solo: dire che si è sempre presi nei nodi che si tessono, significa, per Derrida, affermare che «non c'è fuori testo», che l'impossibilità di un meta-linguaggio è assoluta e che non c'è discorso che possa uscire dal linguaggio per parlare di sé. E, se anche per Jacques Lacan «non c'è metalinguaggio» ma ci sono solo continui rimandi ad altri discorsi, ecco che la ripetizione (come pure la coazione a ripetere) assume, in questi autori e pensatori, un ruolo importante quanto quello assunto dal ricordo.

Personalmente, vedrei molto ben inserita in questo discorso anche la poetica di Edmond Jabès, ma va detto che quel che maggiormente interessa all'autrice è analizzare figure come Artaud, Bataille o Beckett in quanto, essi in particolare, dimostrano che, contrariamente a quanto comunemente si crede, è proprio quando ci si irrigidisce nelle forme e si diventa "normopatici" che si cade nell'angoscia e nella depressione. Ecco allora che una scrittura contro-depressiva è rappresentata ad esempio dalla piéce teatrale Cette fois (Quella volta) di Samuel Beckett: si tratta di un'opera sul ricordo giocata però su una lettura dinamica, capace di animare il testo sino a farne «una forma in movimento», e non già più una forma morta (come lo stesso Beckett ebbe a dire una volta a proposito della scrittura).

Difficile mettere a fuoco in poche righe le tesi principali di un'opera così densa e complessa (nel senso di ricca di contenuti). Sicuramente l'angoscia di cui tratta Grossman non corrisponde alla "solita" angoscia, quella psicologico-esistenziale tout court: ciò di cui si sta parlando corrisponde, piuttosto, a una «crudele esperienza di scrittura e di pensiero che non dipende da alcuna terapeutica o farmacopea» ma dall'esercizio di disidentità (disidentité) e alterità che la vera lettura porta sempre con sé (e l'incontro con l'Altro, insegna Levinas, è sempre, appunto, un incontro terrificante ed estatico – nel senso proprio di ek-stasis, di uscita da se stessi).

Riprendendo un pensiero di Roland Barthes, si può così arrivare a sostenere che una vera lettura è sempre una lettura folle: non in quanto portatrice di controsensi, ma in quanto comprensiva di una molteplicità simultanea di sensi, di punti di vista, di strutture, «come uno spazio esteso al di fuori delle leggi che vietano la contraddizione». Non è forse un discorso semplice quello racchiuso in queste pagine, ma è certamente affascinante e, per chi abbia familiarità con questi personaggi, anche coinvolgente. L'esito del discorso sembra, in ultima analisi, racchiuso in una sentenza che a mio giudizio ben ripropone tanto la filosofia del filone degli ebrei di Francia (Blanchot, Levinas, Derrida) quanto un tratto peculiare della teoria psicanalitica (Freud, Lacan): non si può porre fine all'incontrollabile germinazione delle parole sotto le parole, perché le parole si aprono all'infinito.

Evelyne Grossman, L'angoscia del pensare – Artaud. Beckett. Blanchot. Derrida. Foucault. Levinas. Lacan, Moretti & Vitali, Milano 2012, 169 pp.

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