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Presentata “Lingua Gnostra” - Quaderni di studio sui dialetti Apulo Baresi - dallo scorso 30 novembre in edicola

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NOCI (Bari) - Lo scorso 30 novembre, presso il Chiostro delle Clarisse, il Centro studi sui dialetti Apulo Baresi, ha presentato i frutti del suo lungo e meticoloso lavoro di ricerca che ha riguardato non solo l’aspetto linguistico ed etimologico di quel dialetto che fortunatamente non è più relegato ai margini, come se fosse indice di scarsa cultura e non una lingua a tutti gli effetti. Si è infatti trattato di una ricerca a tutto tondo che è andata ben oltre scavando negli aspetti storici, letterari, culturali e…persino un po’ magici, con degli spaccati di vita quotidiana del tempo in cui è ancora possibile riconoscersi. I frutti del queste ricerche a più mani, sono state raccolte nella rivista a cui è stato dato l’originale ed emblematico titolo di “Lingua Gnostra-Quaderni di studio sui dialetti Apulo Baresi e che sempre dalla stessa data del 30 novembre è acquistabile in edicola ed uscirà annualmente.

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Ad aprire la serata che ha visto come protagonista questa rivista preziosa dal punto di vista socio culturale, sono stati Maria Semeraro e Giovanni Laera, dialogando a colpi di proverbi in dialetto intrisi di palese misoginia come “Femmène ciùcce e crèpe tenène a stessa chèpe” (donne, asini e capre hanno la stessa testa) e che hanno irritato un po’ la platea femminile nei momenti in cui prendeva la parola Giovanni, facendo scaturire invece espressioni di soddisfacente rivalsa quando Maria rispondeva per le rime con un proverbio che metteva in luce uno o più difetti dei maschietti come “L’òmme pota a chèse ma a fèmmene pòrte a’ chèse” (l’uomo porta a casa perché magari guadagna, ma la donna regge la casa”) Ci sarebbe da fare anche una lunga disquisizione sull’espressione “sì na salèm” (“sei una buona a nulla) che spesso viene rivolta alle donne e che rimanda chiaramente alla Gerusalemme più antica, le cui donne restavano spesso impietrite ed atterrite dalla violenza usata dagli invasori. A spiegare il perché di quest’inizio un po’ inconsueto, è stato il presidente del Circolo Culturale, Mario Gabriele che ha dichiarato “Vi sarete sicuramente accorti di come la maggior parte dei proverbi recitati dai due ragazzi fossero improntati alla misoginia ed abbiamo voluto iniziare in questo modo per mettere in luce l’atteggiamento pesantemente misogino che spesso regnava all’epoca. Sono contento che l’articolo relativo ai proverbi, molti dei quali denigratori nei confronti delle donne, sia stato scritto proprio da una donna: Angela Liuzzi. Vedete, studiare a tutto tondo il dialetto, non significa dover essere d’accordo per forza con tutto quello che vi si esprime. Non tutti i proverbi racchiudono la verità come si è sempre portati a credere; anzi, la caratteristica peculiare di certi proverbi è spesso la contraddittorietà. Abbiamo quindi voluto iniziare stimolando il vostro spirito critico. Badate che il dialetto contiene molto spesso grandi verità però allo stesso tempo di verità è avaro, quasi geloso e va smontato in ogni sua parte, studiato attentamente per fare emergere questa verità. Verità che, come vi dicevo, possono essere belle o brutte, e non vanno accettate passivamente ma nei confronti delle quali va presa sempre una personalissima posizione a volte anche critica. Il nostro diletto, la lingua che ci identifica profondamente, sembra riproporci quell’imperativo iscritto in greco sul tempio dell’Oracolo di Delfi: “conosci te stesso” e niente può aiutarci a conoscerci meglio della nostra lingua, quella che reca espressioni talmente e totalmente nostre, che sono spesso intraducibili” Gabriele ha poi spiegato il motivo della scelta del titolo: “Lingua Gnostra”: “Cos’era la gnostra se non il luogo per eccellenza di socializzazione, di aggregazione e di scambio umano? Era la “casapiazza” in cui ci si scambiavano informazioni e perché no, anche frammenti di cultura. Quello che noi auspichiamo, è proprio quanto avveniva all’interno delle gnostre: lo sviluppo di una coscienza socializzante! Diciamo no alla privatizzazione della coscienza e della cultura, propugnata in quel linguaggio freddo ed accademico che risulta di difficile comprensione e conseguentemente allontana. Del resto, una delle discipline più nobili ed elevate qual è la filosofia, è nata proprio nelle strade e nelle piazze di Atene. Lo stesso Socrate era sempre in piazza a filosofeggiare, invitando chiunque incontrasse a fare altrettanto. Non si può non notare, inoltre, che “lingua gnostra” è un efficace gioco di parole che sta a significare “Lingua parlata tra le gnostre e per questo ancora più nostra”
Giovanni Laera ha preso a questo punto la parola elencando brevemente alcuni singolari articoli insiti nella rivista e che egli ha curato in prima persona. Il primo riguarda una sorta di parallelo tra la commemorazione dei defunti, che assume la denominazione tutta nocese de “l’aneme di muèrte” e la festa americana di Halloween, che inizia a prendere sempre più piede anche da noi, diventando doppia occasione per i più piccini di raccattare leccornie e magari qualche soldino. In realtà Halloween e “l’aneme di muèrte”, nonostante la prima sia stata tacciata impropriamente di essere una festa di stampo satanico in cui si dà sfogo alle più efferate barbarie, sono la stessa e identica cosa. Se Halloween coincide con il capodanno celtico e quindi con il nuovo, la festività dedicata ai defunti coincide con la nuova stagione agraria ed è anch’essa sinonimo di rinnovamento. Gli elementi sono affini: i bimbi mascherati che simboleggiano i morti che una volta l’anno ritornano ad incrociare il mondo dei vivi ed il “banchetto” che viene allestito sia per i viventi che per i defunti, a simboleggiare il legame che inevitabilmente li unirà per sempre. Molto probabilmente, tanti di noi leggendo, staranno ripensando all’usanza di lasciare la tavola imbandita ed una candela sul davanzale nella sera tra il primo ed il due novembre. Ci sono addirittura dei dolci tipici come le “ossa dei morti”, che hanno proprio la forma di un femore umano e che in molte regioni vengono vendute addirittura con sacchetti recanti i vari nomi, in modo che si possa scegliere quello della persona che si è amata e che si vuol ritrovare e riaccogliere nuovamente dentro di se “mangiandolo”. Un rituale un po’ macabro che può facilmente rimandare al cannibalismo ma che racchiude in se un significato molto più profondo. Per rimanere in tema “horror”, parliamo di lupi mannari e delle varie denominazioni dialettali affibbiate a queste mitologiche creature spesso romanzate. Sicuramente ci sarà capitato di sentire l’espressione “lupe sùrde” (uno che fa volutamente orecchie da mercante o che sembra mansueto ma aspetta solo di scatenare la propria aggressività) Un’espressione che deriva probabilmente da “Lupus sulares”.
L’espressione “lupe chène”, invece è tutta nocese e vuol chiaramente significare “canelupo”. Ma come nasce? Un tempo, quando non si godeva dell’illuminazione odierna, al calare le tenebre, era difficile riconoscere se ci si trovasse di fronte ad un lupo, ad un cane oppure ad un ibrido. Vi sarà stato sicuramente detto, da genitori, nonni o amici che vi abbiano visto in procinto di appisolarvi “Stè vène Pavelùcce?” “Paoluccio”, ovvero il sonno: un caso, non certo raro, in cui in dialetto un nome proprio ne indica uno comune.
“Pavelucce” nasce da un aneddoto che riguarda San Paolo, il quale parlava ormai da diverse ore ed un ragazzo di nome Eutico, seduto sul davanzale di una finestra, si appisolò cadendo di sotto e morendo sul colpo. San Paolo, rammaricato, lo prese tra le braccia e lo riportò in vita.
A firma di Giandomenico Oliva è invece un altro interessante articolo circa la festività di San Giovanni ed il significato di questo nome. Se in tempi più antichi, Giovanni era il “Caro al Signore” e quindi degno del massimo rispetto, col tempo la crescente diffusione del nome è arrivata ad insignirlo del significato opposto, indicando appunto “l’uomo comune, l’uomo qualunque senza infamia e senza lode” o addirittura lo stolto, “u minghiarile”.
Degna di nota è un’altra espressione tipica: “mangè a 28” che significa “mangiare fuori, mangiare a scrocco”. Ma quale significato assume questo numero? Alcuni lo collegherebbero alle 28 tavole del cuoco cinquecentesco Bartolomeo Scappi, incise in rame e raffiguranti l’architettura e gli utensili della cucina rinascimentale. Altri lo farebbero risalire addirittura a Platone, secondo cui 28 era il numero perfetto dei partecipanti ad un banchetto, altri ancora la cabala napoletana, in cui il 28 indicherebbe il seno materno sinonimo di abbondanza per il bimbo che effettua le sue poppate.
Parola a Maria Semeraro che ha parlato degli articoli insiti nella rivista che recano la sua firma. Particolarmente significativo quello riguardante “U’ vuè da Madonne” il “guaio della Madonna”. Oggi la usiamo soventemente per indicare un guaio di grossa portata o un periodo nero in cui di guai se ne assommano in maniera concatenata. Un tempo invece, indicava una sola patologia: l’ernia ombelicale oppure inguinale, che si traduceva nell’impossibilità di avere un rapporto sessuale e quindi di procreare. Una vera tragedia per le famiglie che vedevano così preclusa la possibilità di portare avanti il loro cognome e quindi la loro discendenza. Ecco allora che nella fatidica data del 3 maggio, tantissime famiglie giungevano a Noci, presso il Santuario della Croce, con in braccio i loro piccoli sofferenti a causa dell’ernia, per sottoporli al “rito magico”. Rito che prevedeva la presenza di un padrino e di un esperto, che sceglievano un ramo di quercia e dopo averlo tagliato longitudinalmente e divaricato, vi facevano passare attraverso il bimbo prima con la testa e poi con i piedi per tre volte. Il ramo della pianta che si era fatta carico della malattia del bimbo “assorbendola”, veniva poi ricongiunto all’albero per mezzo di uno spago o di un nastro, perché doveva avere anche lui la possibilità di rifiorire. Solitamente, al ramo adoperato, veniva legata una medaglietta o una targhetta con il nome del bimbo. Se l’anno dopo si ritrovava il ramo rifiorito, significava che il bimbo era completamente guarito, se invece era seccato, il rito andava ripetuto.
Altro rito di origini antichissime, che probabilmente è praticato ancora oggi, è il “taglio dei vermi” (intendendo per vermi un’infezione intestinale dovuta a batteri). C’erano diverse guaritrici esperte del rito, che bagnando le dita nell’olio, facevano ripetutamente dei segni di croce sulla pancia e sulla testa del bimbo, con formule recitate con le sole labbra. Nessuno doveva captare le loro parole, pena la non corretta riuscita del rito. Formule diverse per ogni guaritrice che venivano tramandate di generazione in generazione in determinati giorni dell’anno.
E come non parlare d’ ù monacìdd? (quello che a Napoli è o’ Monacello) un folletto che può essere prodigo (portare alla casa un benefico economico non indifferente) oppure foriero di cattive nuove. La scrittrice Matilde Serao, fu la prima ad avanzare l’ipotesi che il Monacello fosse realmente esistito e che si trattasse di un figlio nato deforme, frutto di una relazione illegittima tra una ricca signora ed un garzone poi ucciso. Proprio a causa del suo ripugnante aspetto, tutti lo avrebbero additato incolpandolo di qualsiasi male.

12 2 lingua gnostra 1Insomma sarebbe il caso di dire “Un mondo ed un popolo in una rivista”, grazie alla collaborazione di Maria Semeraro, Giovanni Laera, Angela Liuzzi, Pietro Fasano e Chiara Gigante che hanno instancabilmente raccolto tanto materiale che, come abbiamo visto, va dalle credenze popolari ai significati etimologici di alcuni termini senza tralasciare persino una serie di appetitose ricette. In conclusione di serata, Mario Gabriele ha dichiarato che: “Il nostro non è un chiuso tentativo di difendere il dialetto, perché non ha bisogno di essere difeso. Il dialetto va solo amato con “priscio”, termine che deriva dal latino “pretium” (prezzo) ma che significa anche e soprattutto prezioso, di valore. E come tutte le cose preziose, si vuole averne a massima cura e condividerne la bellezza.

 

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