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L'abbandono

temTemperamente - «L’assenza di pensiero, che sempre più sta prendendo piede nel nostro tempo, si fonda su un evento che distrugge l’uomo nell’intimo: l’uomo del nostro tempo è in fuga davanti al pensiero». Nel corso di una conferenza del 1955, pubblicata come L’abbandono, il filosofo tedesco Martin Heidegger esamina le declinazioni del pensiero calcolante, quello che progetta e mette in conto, che insegue senza tregua un’occasione dopo l’altra, che è incessantemente all’opera nelle ricerche scientifiche, ma che non si arresta mai alla meditazione.

A questo punto, prima di proseguire, credo sia il caso di soffermarci un momento sulla parola “progetto”. Il progetto, semanticamente e concettualmente, indica e implica già da sempre l’esser proiettati verso il futuro: la progettualità, non a caso, non ha a che fare con la mera presenza bensì col futuro prossimo, non con la mera sussistenza ma con l’esistenza, indicando una direzione che va oltre l’immanenza del sub-sistĕre, in favore, appunto, della trascendenza dell’ex-sistĕre (sono concetti che, naturalmente, sto prendendo a prestito proprio dalla filosofia esistenzialista di cui Heidegger era esponente). Grave errore sarebbe allora vivere alla giornata, perché si tratterebbe appunto di un falso vivere, di uno “stare”, di un giacere sussistendo. I tedeschi usano il verbo “liegen” per indicare il giacere passivo, quello, per intenderci, di chi sta ad esempio seduto su un divano. E vale la pena prendere coscienza di queste cose, visto che oggi si fa un gran parlare di “contratti a progetto” – quando si tratta esattamente di quanto più lontano possa esserci dalla dimensione della progettualità.

Se non vogliamo far svanire del tutto il pensiero meditante, aggiunge il filosofo di Meßkirch, occorre tener desto in noi l’abbandono nei confronti delle cose, del calcolo e degli oggetti della tecnica («Possiamo infatti far uso dei prodotti della tecnica e, nello stesso tempo, in qualsiasi utilizzo ne facciamo, possiamo mantenercene liberi, farne a meno, abbandonarli a loro stessi»); o tutta la nostra vita cadrà nel baratro dell’automatizzazione («Ormai dipendiamo in tutto dai prodotti della tecnica. Essi ci hanno forgiati a nostra insaputa, e così saldamente, che ne siamo ormai schiavi»).

Non si tratta, si badi, di una sterile condanna dei saperi tecnico-scientifici, quanto di una messa in guardia nei confronti di quella che oggi viene definita, e a ragione, “religione della scienza”. Dove sta la differenza: mentre la scienza si astiene dall’analizzare ciò che non può essere misurato con un metro o pesato su una bilancia (ad esempio la dignità umana), la religione della scienza sentenzia che, ciò che non può essere analizzato col metodo scientifico, o non conta o non esiste. Detto così sembrerà uno scherzo, eppure invito i lettori di Temperamente a considerare l’influenza che una disciplina come l’economia – e con essa la finanza – esercita sulle nostre vite. Ciò in quanto, secondo il pensiero dominante (e Martin Heidegger l’aveva capito già sessant’anni fa), conta solo ciò che è contabile, misurabile, appunto. Ecco allora che l’economia, che è fatta solo di numeri, viene percepita come qualcosa di più importante e addirittura di più vera e reale della dignità, delle emozioni e dei sentimenti. Quando, piccolo dettaglio, l’economia semplicemente non esiste – non esiste infatti in natura.

Ecco perché Heidegger gioca spesso, in questo testo, con l’espressione “in fuga davanti al pensiero” (auf der Flucht vor dem Denken) per denotare il disorientamento (letteralmente Gedanken-flucht) dell’uomo contemporaneo; ed ecco perché ho scelto di privilegiare, per la recensione di questo mese, un saggio filosofico che fosse snello e attuale, da sfogliare agevolmente anche in estate.

Martin Heideger, L’abbandono, il melangolo, opuscola, Genova 2004, 90 pp., 12 euro

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