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La misura del mondo

temperamente copiaTemperamente - Cosa succede se il principe dei matematici incontra l'uomo che ha inventato la geografia moderna? Di chi sto parlando? Carl Gauss e Alexander von Humboldt. Ma più del chi, facilmente intuibile, dovreste chiedervi il quid di cui sto parlando: de La misura del mondo, ça va sans dire, romanzo di Daniel Kehlmann uscito qualche anno fa per Feltrinelli.

A cavallo tra Sette e Ottocento l'Europa era un fiorire di menti eccelse, specialmente l'area germanica. È a Berlino che i due si incontrano per la prima volta, questa città che appare a Gauss orrenda, pur intuendo che diventerà popolosa e famosa come Londra e Parigi nel futuro immediato, ma questa è solo una delle tantissime intuizioni di lunga durata che Gauss o Humboldt hanno. Sono entrambi anziani, leggermente sfatti, rallentati – Gauss dice che mentre prima ci avrebbe messo qualche giorno per risolvere il problema sul magnetismo che gli pone Humboldt, adesso ci impiegherà una settimana, mentre noi menti normali probabilmente non ci riusciremmo neanche in una vita; Humboldt che riusciva a convincere chiunque a farlo passare o a raggiungere luoghi inauditi senza passaporti e autorizzazioni ufficiali, ora deve rassegnarsi alle cene di rappresentanza e a non infrangere troppi divieti mentre è in viaggio – ma non per questo i due sono meno lucidi, caparbi e divertenti. Essì, divertenti, perché Kehlmann ha l'enorme pregio di raccontare questa storia con un'ironia spiazzante, inaspettante, vivida.

«Il primo esploratore dell'Orinoco: un pazzo assassino! disse Bonpland. Sembrava avere senso.Quell'uomo triste non ha esplorato un bel niente, disse Humboldt. Così come un uccello non esplora l'aria o un pesce l'acqua.
O il tedesco il senso dell'umorismo, disse Bonpland.»

Il barone Humboldt passa la sua vita a specificare i confini del mondo conosciuto, misurando, aggiustando, percorrendo vie che nessuno aveva mai intrapreso, stabilendo record e auspicando sempre che le sue scoperte avrebbero portato il mondo a un passo in avanti, a un'economia più florida, a un benessere maggiormente condiviso, a una riduzione degli sforzi e del tempo umano. «Aveva esaminato tutto quanto non avesse piedi e paura a sufficienza per scappare davanti a lui», includendo anche l'esperienza di farsi calare in un vulcano e sfatando, sempre, tutti i miti dovuti all'ignoranza della gente del luogo; Gauss, figlio di un rozzo giardiniere e di una povera contadina, a vent'anni aveva scritto il suo capolavoro, le Disquisitiones Arithmeticae, («Non si ricordava di nessuna ispirazione, di nessuna illuminazione. Solo del lavoro»), prima ancora ricavato la formula per calcolare la distanza tra i pianeti e scopertone uno, volato su una mongolfiera, intuendo che anche le linee parallele prima o poi si incontrano, e passava la maggior parte del tempo annoiandosi della lentezza delle altre persone. E della loro continua viltà: «Erano necessarie tutte quelle simulazioni? (...) Sulla via del ritorno, Gauss si chiese se sarebbe mai arrivato il giorno in cui le persone avrebbero potuto frequentarsi senza dover mentire. Ma prima che trovasse la risposta, comprese che ogni numero poteva essere rappresentato come la somma di tre numeri triangolari.» Se questo passaggio vi sembra finto e artificioso, perché appare impossibile che mentre si fa una riflessione sulla natura umana la mente produca una soluzione matematica, a parte rispondervi che probabilmente per persone come Gauss questa era la normalità, leggete il suo proseguo: «Con le mani tremanti cercò il suo taccuino, ma l'aveva dimenticato a casa e dovette borbottare la formula fino alla locanda successiva, dove strappò una matita dalla mano di un cameriere e la scrisse su un tavolo.»

Perché il bello, il bellissimo, direi, de La misura del mondo è riportare sempre le vite di questi due uomini straordinari alla loro dimensione strettamente umana, materica, fisica. Con frasi come «Humboldt rispose di aver riflettuto a lungo sulle regole della fama. Nessuno prenderebbe sul serio un uomo di cui è noto che sotto le unghie dei piedi hanno vissuto delle pulci. A prescindere dalle imprese che può aver compiuto», verità forse un po' estrema, ma plausibile. Proprio come quando Gauss riflettendo, si accorge che «gli piaceva il fatto che esistessero cose che lui non capiva» e poi, al suo matrimonio, «disse che non si sarebbe mai aspettato di trovare qualcosa di simile alla felicità e, a esser sinceri, non è che ci credesse davvero. Aveva piuttosto l'impressione che si trattasse di un errore di calcolo, uno sbaglio di cui sperava che nessuno si sarebbe mai accorto», con la moglie che gli dice che era proprio il discorso che immaginava ascoltare il giorno delle proprie nozze.

Kehlmann segue le due biografie in parallelo, alternando i capitoli della vita dell'uno a quelli della vita dell'altro, con dei brevi fuggevoli incontri a distanza: Gauss legge delle imprese di von Humboldt in Andalusia e pensa «Quest'uomo è impressionante! Ma anche un folle: come se la verità si potesse trovare lontano e non qui. O come se si potesse scappare da se stessi»; Humboldt legge del giovane astronomo che ha scoperto un pianeta a Göttinga e vorrebbe scrivergli per farsi aiutare nel tentativo di decifrare la città azteca, che scopre essere un enorme calendario a terra, ma la missiva ci impiegherebbe troppo ad arrivare e ad aver risposta. Vite che si incontrano dal vivo alla fine, e non è che siano proprio rose e fiori, ma continuano a essere integrate e a coadiuvarsi teoricamente. Meccanismo che giunge all'apice nell'ultimo capitolo, in cui i loro racconti si incastrano, frase dopo frase, avventura dopo avventura, teoria dopo teoria – artificio letterario perfetto, che Kehlmann riutilizza anche in Fama, romanzo in 9 storie, Feltrinelli, 2010.

Scrivere un romanzo biografico e scientifico senza risultare neanche lontanamente noioso o incomprensibile anche per un letterato è l'impresa più che riuscita di Kehlmann; far venir voglia di partire, avventurarsi e studiare, studiare, studiare, anche. Nonostante «il mondo si rivela molto deludente, appena ci si rende conto di quanto sottile sia la sua trama, di che rozzo tessuto sia l'illusione, e quanto raffazzonate le sue cuciture. Perché solo i segreti e l'oblio rendono la vita sopportabile. Perché non si può sopravvivere senza il sonno che strappa dalla realtà. Non riuscire a fare finta di niente è tristezza. Lo stato di veglia è tristezza. Conoscere è disperazione. Perché? Perché il tempo scorre sempre via», nonostante questo, in una notte più lunga delle altre, entrambi concordano che «Tutto sommato, non saprei spiegare perché mi sento così leggero». Ma, leggendo il libro, credo che lo intuiremo.

Daniel Kehlmann, La misura del mondo, Feltrinelli, 2006

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