Stamattina quando ho aperto gli occhi ho pensato che questo sarebbe stato un giorno come un altro. Ho visto l'ora e come al solito mi sono subito accorta di essere in ritardo. Così, sempre come al solito, sono saltata giù dal letto e ho iniziato a prepararmi indossando i primi vestiti che ho trovato nel mio armadio sempre in disordine. Volevo essere puntuale e per questo ho deciso di saltare la tappa al bar e ho rinunciato al mio caffè mattutino, pensando che una volta entrata in ufficio il mio collega, come di routine, mi avrebbe chiesto di fargli compagnia per la sua colazione.
In macchina alla radio risuonava il tormentone dell'estate e tra me e me ho pensato: "Un po' di carica prima del lavoro ci vuole". Ho iniziato a canticchiare, sempre pensando che questo, infondo, niente sarebbe stato se non un giorno come un altro.
Se le avesse chiesto la vita, lei gliel’avrebbe donata. Ho incontrato per caso Serena e Roberta in un bar. Ero seduta al mio solito tavolo, con il mio solito taccuino a scrivere storie. Incuriosite mi hanno chiesto cosa stessi scrivendo di così tanto interessante da sembrare così assorta nei miei pensieri. In men che non si dica mi sono ritrovata accanto a due ragazze, piene di vita, apparentemente normali, eppure straordinariamente speciali.
Quando ho chiesto ad entrambe cosa facessero di bello nella loro vita, la prima cosa che hanno saputo dirmi è stata: “Siamo amiche da 20 anni”.
NERO SU BIANCO - Avevo 16 anni e credevo di essere una ragazza come tante, forse solo un po’ più introversa, ma per il resto ho sempre pensato di non essere diversa dalle mie coetanee. Al liceo ero circondata da amiche, ragazze che mi volevano bene per quella che ero o che mi sentivo di essere; la mia migliore amica non mi ha mai fatto pesare il mio essere così “imperfetta”. Camminava accanto a me orgogliosa. Eppure non per tutti era così.
Innanzitutto mi presento. Il mio nome è Rosa, ma in paese mi conoscono come “Rosina”. Era il nome di mia nonna, una donna che ai suoi tempi di speciale aveva la dedizione verso la famiglia. Passione che lei ha trasmesso a mia madre e lei a me, poco più di 50 anni fa.
Ho da poco compiuto 55 anni, e quello che un tempo era considerato “speciale”, oggi viene spesso sottovalutato o talvolta, nei casi peggiori, denigrato.
Mamma. Mi piace chiamarti così, anche se forse sceglierai tu di non ricoprire questo ruolo in quella che sarebbe potuta essere la mia vita. E a me piace sentirmi tuo figlio. Ho dato uno sguardo al mondo in questi giorni in cui tu stai prendendo la grande decisione e ho capito che su di me esistono diversi pensieri: c’è chi dice che io non sarei un essere vivente fino al giorno in cui vedrò la luce e chi, al contrario, pensa che merito già di essere tuo figlio, o per lo meno ne merito l’appellativo. Perché la vita io non l’ho vista e chissà se potrò mai vederla.
Alcune nostre azioni, apparentemente inspiegabili, in realtà lo sono davvero. Non hanno un’origine precisa, una motivazione solida alla base tale da poterle addirittura giustificare. Alcune cose le facciamo perché in quel momento ci sembrano giuste o solo perché ci va di farle.
Questo può succedere quando sei giovane e vai a scuola. Entri a far parte di un nuovo ambiente, dove nella maggior parte dei casi non conosci nessuno e capisci che da quel momento in poi la tua identità subirà una svolta decisiva: non importa chi tu sia o chi tu senta di essere, a scuola devi far parte di un gruppo con il quale sarai identificato fino alla fine di quel percorso.