Aldo Moro nel pensiero di Vittorio Bachelet

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Ricordo del Vice-Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura a  90 anni dalla nascita

Nell’ultimo decennio (2005) sono stati pubblicati, a cura di Matteo Truffelli (attuale Presidente dell’Azione Cattolica Italiana, Docente presso l’Università di Parma) sia gli Scritti civili sia gli Scritti ecclesiali di Vittorio Bachelet, nato a Roma il 20 febbraio 1926 ed assassinato, nella capitale italiana, dalle Brigate Rosse nell’Università “La Sapienza” il 12 febbraio 1980 (cf Maggi, 1982). La singolare circostanza dell’uccisione di Bachelet sta nel fatto che egli viene freddato proprio dopo aver concluso una lezione di diritto pubblico nell’aula dedicata allo statista pugliese (Maglie, 23 settembre 1916; Roma, 9 maggio 1978), anch’egli trucidato, insieme alla sua scorta (16 marzo 1978) dalle Brigate Rosse (cf Campanini, 1982).

In questa sede vogliamo ricordare l’opera e la figura di Bachelet – a 90 anni dalla nascita – ripercorrendo brevemente il suo stesso pensiero sul vissuto umano, cristiano ed istituzionale di Moro: vissuto che egli ricorda, in qualità di Vice-Presidente, nella commemorazione illustrata il 17 maggio 1978, al Consiglio Superiore della Magistratura (CSM; Scritti civili, 1001-1004). L’amicizia prolungata nel movimento politico dei cattolici democratici tra Moro e Bachelet non impone a quest’ultimo d’avventurarsi nella “facile retorica” e nell’”istintiva mediocrità”: retorica e mediocrità molto diffuse nel quadrante storico preso in esame, soprattutto da parte di alcuni esponenti di spicco della “classe dirigente italiana”.

Il primo punto che Bachelet sottolinea concerne il profilo di Moro che risulta essere un servitore e testimone degli ideali di libertà e di giustizia che sono anima e forza della democrazia: l’’ex-Presidente Generale dell’Azione Cattolica Italiana (dal 1964 al 1973; cf Casella, 1980) mette subito in luce, cioè, la sostanza umana e cristiana del “potere politico” che va esercitato come “un servizio gratuito di testimonianza nei confronti delle comunità nazionali e internazionali”. L’adagio cristologico e laicologico secondo cui regnare è servire viene ulteriormente rigorizzato da Bachelet col concetto trasparente dell’eloquenza del martirio: “il servizio martiriale” avvicina, così, Moro a santo Stefano, a san Paolo e a san Pietro. La tipicità del suo servizio e della sua testimonianza non si limita, però, ad un atteggiamento passivo e di rassegnazione (durante i giorni della prigionia: 16 marzo-9 aggio 1978) ma arriva ad un comportamento creativo – classico nei veri missionari del valore della vita quotidiana – teso a far scattare, nel cuore dei suoi carcerieri, la conversione, la riconciliazione e la pietà fraterna. Senza la grazia non c’è libertà e senza libertà non c’è giustizia: questo nucleo fondativo del magistero e della dottrina sociale della Chiesa  – elaborato con grande respiro da Bachelet in una riflessione puntuale ed estesa (cf Scritti civili, 780-831) – sta a significare che il servizio gratuito e la testimonianza cristallina dei cattolici in politica non sono amorfi (=laicità neutra) ma sono direttamente correlati al valore della libertà (“di”, “da” e “per”) e della giustizia (commutativa, distributiva, legale, sostanziale): giustizia positiva basata sulla giustizia naturale o razionale o creaturale. C’è di più, comunque, nella riflessione di Bachelet perché la libertà e la giustizia, a loro volta, sono l’anima e la forza della democrazia politica, la cui sovranità appartiene al popolo, a livello rappresentativo ma anche a livello deliberativo. L’esperienza umana, cristiana e istituzionale di Moro non si può dividere perché essa è un’unica esperienza che trova il suo motore etico nell’energia che gli proviene dall’esistenza azionata dalla carità dello Spirito del Risorto e sotto la sua guida amorosa (cf Lazzati, 1984).

Il secondo punto che Bachelet pone all’attenzione del CSM è che Moro è inserito nel solco dei grandi costruttori della convivenza civile per renderla più umana e serena: si tratta dell’opera difficile ma esaltante della compaginazione della “convivenza delle differenze” e della “pacificazione delle verità utopiche”. A questo livello Moro – dopo De Gasperi (cf Campanini, 1982) – è il più grande politico italiano della seconda metà del XX secolo, che, in virtù delle sue specifiche conoscenze filosofiche, giuridiche e sturziane, è capace di valorizzare i corpi intermedi della società e delle autonomie politiche, armonizzandole in una sintesi superiore e in visione organica e interattiva. Egli è sempre capace d’unire i distinti perchè conosce le mozioni interiori dei movimenti popolari e le tensioni utopiche della aspirazioni di ciò che La Pira (cf Lazzati, 1982) chiamava la storiografia del profondo. L’orizzonte teleologico della convivenza civile e dell’umanesimo felice è, per Moro, “la processualità democratica della costruzione della pace”: quest’intuizione neoagostiniana, neotomista, costituzionale e del Vaticano II (1962-1965) è una sorta di mistica morotea, che “lo statista di Maglie” vive nella propria carne come ascesi paolina o del paradosso capograssiano. La pace politica è la risultante, per successive approssimazioni, della verità, della libertà, della giustizia e della solidarietà: valori che si autorealizzano soltanto quando vengono garantiti e promossi i diritti umani, che sono universali, inviolabili, inalienabili e indivisibili.

Il terzo punto che Vittorio Bachelet evidenzia della  figura e dell’opera politica, anche internazionale, di Aldo Moro è il suo quotidiano realismo e la sua ampia prospettiva storica: la gradualità della legge e la legge della gradualità sono, di conseguenza, le regole, pure europee, del suo approccio alla vita del popolo e dei popoli. Il suo realismo non coincide con la fotografia fredda ed ipostatizzata della realtà ma con la conoscenza del piano delle azioni storicamente possibili, in quel particolare momento storico-concreto: azioni da proiettare con lungimiranza e ariosa democratizzazione crescente. In merito, Bachelet ricorda la grande operosità che Moro ha per permettere alle donne d’entrare, a pieno titolo, a far parte della magistratura ordinaria: in questa direzione, oltre a pre-vedere il futuro e ad essere il teorico della realtà (cf Turi, 1978), Moro prefigura l’essenza della vita comune, della dignità della vita personale e della partecipazione, dal basso, dei cittadini alla gestione democratica del “potere politico”. Sul ruolo attivo e sociale dei giovani ci sono delle pagine assolutamente leggendarie di Moro, anche quando egli era studente nella Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI) e nel Movimento dei laureati cattolici. Bachelet non insiste su questo “versante innovante della politica di Moro” ma non può non ricordare il flusso d’ammodernamento portato dal “testimone” nelle strutture, giovanili perché nuove,  dell’amministrazione pubblica della giustizia in Italia e oltre.

Il quarto – e ultimo – punto che Bachelet precisa attiene al senso delle istituzioni repubblicane in Moro: senso che richiede una concordia naturale e doverosa. La doverosità sociale delle istituzione repubblicane è, per Moro, l’elemento cardine della tenuta del sistema democratico e pluralistico, personalistico e solidaristico: i ricorrenti interventi dell’azione armata contro i rappresentati profetici della nuova società solidale e non frammentata sono il segno, per Moro, della debolezza strategica delle Brigate Rosse, soprattutto sul piano sindacale, giornalistico, politico, istituzionale e costituzionale. Egli sa che – al contrario del dogmatismo ideologico e militare delle BR – l’ethos popolare italiano trova nelle sue radici secolari del cristianesimo vivo i valori forti per contrastare il terrorismo e per sperare contro ogni speranza. Bachelet, a questo punto – ricordando anche la sua infanzia, strettamente legata alla vita eucaristica – chiede ai componenti del CSM di zittire e di fare abitare il silenzio nel cuore di ognuno, senza forzature apologetiche ma liberamente e laicalmente: ecco, per “le istituzioni calde” (cf Ruffilli, 1981) sono rappresentate dal cuore palpitante di ogni cittadino onesto e lavoratore, anonimo e costruttore del bene comune, che, nel silenzio, pone il suo indispensabile mattone alla “costruzione della città degli uomini”.-

                                                                                   

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